venerdì 24 luglio 2009

La federazione della sinistra di alternativa, le sue finalità e l’autonomia di Rifondazione Comunista

di Gianluigi Pegolo
Sabato 18 luglio nell’assemblea tenuta ai Frentani, a Roma, è stata lanciata la proposta della “federazione della sinistra di alternativa”. L’obiettivo dichiarato: allargare il campo di forze che ha dato vita, in occasione delle scorse elezioni europee, alla “lista comunista ed anticapitalista”. Il mezzo? Una federazione e, cioè, un assetto organizzativo che prevede il mantenimento dell’autonomia dei singoli soggetti, ma il loro raccordo attraverso strutture unitarie, nella prospettiva di una presentazione comune alle elezioni e di un programma d’iniziativa concordato.

La cospicua partecipazione che si è avuta dimostra che il tema dell’unità a sinistra è sentito e, peraltro, la cosa è del tutto comprensibile. Alle scorse elezioni la lista comunista ed anticapitalista ha conseguito il 3,4 per cento non riuscendo ad ottenere una rappresentanza nel parlamento europeo. Un risultato insoddisfacente, dunque, che - tuttavia - è ancora più preoccupante se lo si mette in relazione con il complesso del sistema istituzionale rappresentativo. Il 3, 4 percento rappresenta, infatti, una soglia che rischia di porre le forze che si sono presentate insieme alle europee in una collocazione extra istituzionale, a causa degli sbarramenti già operanti e in via di definizione nei diversi livelli istituzionali (dal parlamento, alle regioni, alle province e ai comuni). Ne consegue che la costruzione di un campo di forze che consenta di raggiungere una massa critica adeguata (in primo luogo a livello elettorale, ma non solo) costituisce un’esigenza inderogabile, pena il rischio della crescente irrilevanza ed emarginazione.
Che quindi si avvii un processo di riaggragazione a sinistra non può che essere considerato positivamente, ma - ciò premesso- non si può che rilevare la grande incertezza che grava su tale processo. In effetti, la proposta nata dall’interlocuzione fra i massimi dirigenti delle tre forze che diedero vita alla lista comune per le europee (PRC, PDCI, Socialismo 2000) appare come un contenitore appena abbozzato, la cui base politica è definita solo parzialmente, non essendo chiaro, ad esempio come il proposito di mettere in discussione il bipolarismo si traduca poi concretamente in azione, a partire dal nodo del rapporto col PD, ancora in larga misura non definito. Non solo, la stessa finalità della federazione non è precisata. Per alcuni, come il segretario del PDCI, dovrebbe essere intesa come un passaggio in vista dell’unità organica in un nuovo partito. Per il segretario del PRC, invece, essa costituirebbe l’approdo finale del processo unitario, essendo la federazione, per l’appunto, il modello ottimale per coniugare l’unità possibile con l’autonomia necessaria delle singole forze.
Che l’urgenza di dare una prospettiva alle forze che parteciparono unitariamente alla competizione elettorale europea costringesse ad avanzare una proposta anche a rischio d’improvvisazioni è comprensibile. Che invece sia possibile a partire da questa prima approssimazione (il patto federativo) proseguire, sull’onda degli avvenimenti politici e delle urgenze sociali, senza regole e finalità chiare, è invece decisamente discutibile. Un simile percorso non dà alcuna seria garanzia ed, anzi, già oggi l’aleatorietà che grava sul processo sta alimentando dubbi nel corpo militante e un confuso procedere nei territori, la cui manifestazione più evidente è la messa in campo di strutture diversificate, in molti casi in palese contraddizione con l’idea stessa di una federazione. Occorre, allora, mettere i puntini sulle "i" circa il significato preciso che si vuole attribuire al termine federazione, alla sua missione politica e alle sue regole di funzionamento.
Per amore di verità, però, occorre sottolineare come, in realtà, dietro tale indeterminatezza non si celi solo la difficoltà obiettiva, in un tempo così breve, a definire un’ipotesi politica ed organizzativa, ma anche – ed è l’elemento più pericoloso – il sussistere (dietro il paravento della federazione) di progetti politici diversi che spesso riflettono dinamiche trasversali alle stesse forze politiche coinvolte. Non è un mistero per nessuno che la federazione sia considerata per alcuni nient’altro che un mezzo per conseguire un altro obiettivo. Ciò vale con tutta evidenza per il PDCI e per i settori di Rifondazione comunista che ne condividono l’impostazione. In questo caso l’obiettivo resta quello dell’unificazione dei due partiti comunisti in un nuovo partito, in tempi celeri. L’allargamento ad altri soggetti non è essenziale. Ma ciò vale anche per quanti tendono a riproporre un’opzione arcobalenista. In questo caso la federazione ridiventa l’occasione per costruire quel soggetto unitario della sinistra che è naufragato alle elezioni politiche.
Cos’hanno in comune questi due approcci, peraltro molto diversi fra loro? Due elementi ugualmente allarmanti. Il primo è che sposano un approccio dichiaratamente politicista in cui i contenuti passano volutamente in secondo piano; il problema si riduce, cioè, essenzialmente alla geografia dei soggetti coinvolti, mentre le differenze esistenti fra le varie forze passano in secondo piano. Il tutto si riduce a somme algebriche di voti potenziali o a identità simboliche separate da valutazioni di merito su posizioni politiche e pratiche sociali. Il secondo, ed è quello più inquietante, è che entrambe presuppongono il superamento di Rifondazione comunista come soggetto politico e come progetto. In questo senso la federazione, nei progetti di alcuni, muovendo da un’esigenza reale, rischia tuttavia di diventare il cavallo di troia per l’affossamento definitivo della nostra proposta politica.
Ma allora, per evitare questi rischi evidenti, quali caratteristiche minime essenziali dovrebbe possedere la federazione e, parallelamente, cosa andrebbe assolutamente evitato? A me pare che la federazione debba possedere due caratteristiche fondamentali: in primis la possibilità di espandersi aggregando nuove forze. Deve potersi espandere perché altrimenti non consegue l’obiettivo fondamentale, che è quello di superare i limiti di consenso registrati dalla lista comunista ed anticapitalista. Ma per fare questo occorre non solo che i suoi organismi dirigenti debbano potersi ampliare raccogliendo rappresentanti di nuove forze, ma che l’allargamento sia il compito fondamentale della federazione stessa. Ciò non sta avvenendo per motivi oggettivi (l’esiguità delle forze politiche coinvolgibili) ma anche per limiti soggettivi (in particolare nei territori, dove i coordinamenti costruiti sono il più delle volte del tutto autoreferenziali). In questa fase, invece, l’allargamento delle forze dovrebbe costituire una vera e propria “ossessione”, e l’attenzione dovrebbe in particolare essere posta ai soggetti sociali, specie quelli più interessanti disseminati nei territori.
La seconda caratteristica essenziale che dovrebbe possedere la federazione è la garanzia di effettiva autonomia dei soggetti coinvolti e il rifiuto esplicito di opzioni fusioniste. Il tema è molto delicato, ma occorre essere molto chiari. Le esperienze di unificazione forzosa a sinistra si sono rivelate un disastro per una ragione semplice, perché le differenze esistenti hanno determinato basi comuni fragili e hanno lasciate inalterati gruppi di pressione e consorterie. IL PD né è una significativa testimonianza, l’arcobaleno anche. Ma non è solo questo. Il problema fondamentale è che la forza in questa fase di una proposta politica non discende solo dalla massa critica che mette in campo, ma dalla credibilità del progetto. Progetti deboli non hanno futuro. Fra questi metto anche un’idea di unità dei comunisti che prescinde da ogni valutazione di merito sugli errori commessi in questi anni, che disconosce le differenze evidenti delle culture politiche e che si illude che comuni riferimenti simbolici o alcuni elementi di identità condivisi siano sufficienti. Per queste ragioni, in ultima analisi, non si può concepire la federazione come soggetto provvisorio.
Infine, sul piano politico, la federazione, deve assumere alcuni riferimenti sociali fondamentali (il lavoro in primis, e in secondo luogo l’articolato arcipelago dei bisogni sociali), deve interpretare il ruolo (come si diceva un tempo ) di cuore dell’opposizione (per questo centrale è il tema della condizione sociale nella crisi, ma altrettanto essenziale è la capacità di ricondurre la lotta sociale alla dimensione politica dello scontro col governo di centro-destra).
Deve inoltre pensarsi come soggetto autonomo, in competizione col PD, ponendo al centro il disegno di trasformazione, la promozione del conflitto e concependo alleanze e ruoli istituzionali in stretta connessione con tali obiettivi. Con un obiettivo fondamentale: quella rottura del sistema politico-istituzionale imperniato sul bipolarismo che costituisce la condizione essenziale per ridare ad una sinistra di alternativa la possibilità materiale per incidere sul piano politico e svolgere un ruolo rilevante su quello sociale.
In questo contesto, va ribadito con chiarezza che una federazione della sinistra di alternativa ha bisogno al suo interno di un più forte Partito della Rifondazione Comunista. Non si tratta di un rigurgito settario, ma di una valutazione lucida. Non esiste una sinistra forte senza che al suo interno non vi sia un soggetto che la innervi. Nel dopoguerra questo soggetto fu il PCI. Oggi occorre reinvestire su Rifondazione Comunista come partito e, soprattutto, come progetto. La ragione è semplice. Se negli scorsi anni Rifondazione Comunista ha assolto una funzione rilevante non lo si deve solo allo spazio politico lasciato aperto dalla deriva del PDS, ma anche alla sua peculiarità. Tale peculiarità era rappresentata dall’eredità del PCI, ma anche dalla capacità di assorbire nuove esperienze e culture politiche. Il processo non si è compiuto in modo soddisfacente, è vero. Non è nata una vera e propria cultura politica, i limiti dei gruppi dirigenti hanno condotto alla fine al disastro e, tuttavia, alcuni tratti di questa esperienza politico-culturale conservano una loro fecondità. Mi riferisco, fra l’altro: ad una concezione della trasformazione in cui il fondamento è posto sulla dimensione sociale e in una prospettiva di massa e in cui la competizione elettorale non soverchia ogni altra dimensione dell’agire politico. Mi riferisco ad un’idea del comunismo come massima espressione di eguaglianza e libertà. Mi riferisco, infine, ad un’idea del partito come soggetto collettivo plurale e democratico, militante e radicato socialmente, in alternativa ad una concezione accentratrice, burocratica e politicista. Questa impostazione, per esercitare la sua influenza, ha bisogno che sia garantita l’autonoma iniziativa di Rifondazione comunista. Per questo va rifiutata l’idea di una federazione come “anticamera di fusioni” che rischierebbero di azzerare, nella mediazione forzata fra posizioni disomogenee, elementi di cultura politica e pratiche essenziali. La federazione, insomma, deve massimizzare l’unità, ma consentendo ai vari soggetti di operare con margini significativi di autonomia, accettando anche una competizione virtuosa fra gli stessi, unico modo – io credo – per favorire l’arricchimento della proposta e l’efficacia dell’azione politica.

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