mercoledì 25 febbraio 2009

L'insostenibile leggerezza dell'essere... PD (qualche riflessione di fondo sul nostro bipolarismo)

di Chiara Pollio

La clamorosa debacle del Pd alle regionali sarde, con conseguente maremoto interno e dimissioni del Segretario Walter Veltroni, fornisce un'occasione per le più disparate critiche sulla realtà politica istituzionale italiana. Una di queste, a prima vista marginale, ma che forse vale la pena di annotare, si attesta a livello della forma che ha preso il bipolarismo in Italia. Si può dimostrare, in poche ma semplici mosse, che il nostro non costituisce solo un'anomalia rispetto agli altri già di per sé discutibilissimi sistemi bipolari, ma che (cosa più grave) esso è una costruzione artificiosa sulla nostra realtà sociale.
E' pacifico che la tendenza seguita dai maggiori partiti nei sistemi bipolari di tutto il mondo è quella alla convergenza sulle piattaforme politiche, e ad un robusto appiattimento ideologico. Ciò causato da una lettura della società come realtà non conflittuale, sia nella materialità delle condizioni economiche (livellamento dei redditi), sia nella convergenza della coscienza politica, sociale e culturale, verso un unico modello e pensiero, di stampo liberale e individualistico. L'equazione è semplice: se la società, e quindi l'elettore, tende al centro, le strategie dei partiti per acquisire consenso si fanno via via più moderate e simili.
Questa, però, non è la situazione che si è venuta a determinare nel nostro paese dallo scorso aprile ad oggi. Era, certo, la strada che si era illuso di poter percorrere il Pd, se non fosse stato che quella che si è aperta non è stata una nuova era di dialogo e conciliazione per la politica italiana, perché nel mezzo si è frapposta la definitiva crisi del capitalismo neoliberista, che ha svelato la realtà di un contesto sociale per niente pacificato, tanto nel conflitto capitale-lavoro come nelle relazioni multiculturali. E allora, mentre la destra ha saputo rispondere prontamente con l'instaurazione di un regime di razzismo securitario e autoritarismo clerico-fascista, il Pd è rimasto indietro, schiacciato sul suo atteggiamento conciliativo e dialogante (salvo scadere in un vero e proprio “collaborazionismo” su temi cruciali come il federalismo), senza comprendere che le istanze sociali erano e sono in questa fase tutt'altre. Quello che ci ritroviamo, a poco meno di un anno da quelle elezioni che, con l'esclusione delle forze della sinistra radicale, avevano scoperto nella semplificazione del quadro politico la Panacea ad ogni male e la risposta a tutte le domande degli italiani, è una destra aggressiva e baldanzosa che risponde alla crisi assestando colpi tremendi a lavoratori e migranti, e un PD spappolato, che ha il suo punto debole non nell'incapacità (come ha dichiarato Walter Veltroni all'indomani dello smacco sardo) di comunicare con il suo popolo, quanto nella totale carenza di proposta politica, coincidente con un'errata lettura delle istanze sociali di questa fase.
E' chiaro come il sole che l'Italia colpita dalla crisi, quella dei lavoratori, degli studenti, dei migranti, ha diritto e bisogno di una battaglia di resistenza e di un'opposizione radicale, che nessuna forza presente in Parlamento può garantire (per carenza di volontà come di capacità). A questa situazione, in un contesto sociale per nulla pacificato, l'assetto bipolare e conciliativo sta decisamente stretto. Non è che una forzatura, che non vive se non a costo di distorsioni fatte appositamente per comprimere gli spazi di democrazia, come risulta essere chiaramente lo sbarramento per le elezioni europee al 4%. Questa è una manovra per escludere forzatamente il conflitto dalla scena politica, e dipingere una società che non esiste. E noi non possiamo permettere che questo avvenga.

martedì 24 febbraio 2009

C'è bisogno di un partito comunista vero con un progetto di cambiamento reale. Ma il PRC è libero di esserlo? I militanti sono la speranza.

di Eugenio Giordano*
Tante volte abbiamo sentito e tuttora ascoltiamo proclami che sono necessari: “Unire le lotte, mettere in campo un progetto, una prospettiva che deve coinvolgere e aggregare”. Tra il dire e il fare c’è sempre, però, di mezzo il mare. In questo caso non è il mare ad essere l’elemento di ostacolo, ma la debolezza, la lentezza a capire che non c’è più tempo da perdere. Prendiamo, ad esempio, lo sciopero del 13: riuscito, grande partecipazione, e poi? Così anche l’11 ottobre, lo sciopero del 12 dicembre e così via. Nelle fabbriche, i lavoratori, anche quelli non iscritti al sindacato, chiedono quale è il passo successivo, la prossima mossa. Una domanda legittima, che da il senso della voglia di ricominciare e partecipare. Regna, invece, sovrana la confusione, la totale assenza di una prospettiva, di elementi chiari di coinvolgimento, che devono mirare ad unire, ma non solo numericamente. Tutto questo mentre la destra mette in campo misure aberranti, come le ronde, gestite dagli ex agenti, oppure, l’introduzione di strumenti assistenziali e non strutturali per la crisi. I lavoratori hanno bisogno d’altro: aumento sensibile di salari e pensioni, innanzitutto. Mentre i poteri forti si coalizzano, per dare un ulteriore sterzata antidemocratica, la Sinistra, i Comunisti continuano nelle loro patetiche divisioni, che hanno ormai il sapore della paura di perdere il potere, quel potere che tanti rincorrono, al di la di ogni morale ed etica politica. Il sentimento di sfiducia, di rassegnazione nei confronti della politica continua, quindi. Al paese, per esempio a quel paese che quotidianamente deve fare i conti con la paura di perdere il posto di lavoro, a quel paese che vive una degenerazione sociale e culturale che non ha precedenti, poco, o niente, importa quale sarà il futuro gruppo dirigente di questa o quella federazione del PRC. Quali saranno i futuri “dirigenti” che guarderanno il “fortino vuoto”, quale sarà il futuro gruppo dirigente che prenderà in consegna il “barile vuoto”. Tutto questo mantiene fuori l’elemento principale: la politica, la piattaforma politica, unico strumento vero per la costruzione di una dirigenza forte e condivisa. Si continua, invece, all’interno del Partito, a ragionare in termini di correnti, del proprio rafforzamento e posizionamento. Le aree politiche hanno un senso, le correnti vanno bandite, se si vuole veramente ricostruire un Partito Comunista vero e di massa. Ricordo sempre, con un misto di nostalgia ed orgoglio, le parole di Gramsci, nel momento della lettura della sentenza del tribunale fascista che lo condannava a 20 anni di reclusione e che diceva pressappoco così: “voi avete distrutto l’Italia, spetterà a noi Comunisti ricostruirla”. Oggi i Comunisti, dovunque collocati, possono citare ancora questa frase? io penso di no! Prosegue, in questo paese, un processo, iniziato da tempo, di degenerazione morale, che ha purtroppo contaminato tutti e tutto, e nessuno può considerarsi immacolato. A ciò stiamo assistendo nel “dibattito” che dopo la scissione si sta avendo in Rifondazione. La corsa ad occupare un posto, rimasto vacante, da chiara l’idea di come in molte realtà, il Partito è, o stia per cadere dalla padella alla brace. Qui entra in gioco un elemento che, a mio avviso, non può più essere sottaciuto: la debolezza del nuovo gruppo dirigente nazionale, la necessità, quindi la convinzione, che questo partito deve ancora sottostare a ricatti interni, perché debole nell’attuare la svolta, quella che tanti hanno sperato da Chianciano in poi. Dopo la scissione andava riproposto con decisione l’elemento del riscatto, il vero valore che possiamo e dobbiamo rimettere in campo e cioè la politica, il progetto, la centralità del Partito, i suoi iscritti, quella immane forza che nonostante tutto e tutti è presente e forte e che rimane, ancora, ai margini. Le prossime tornate elettorali, per esempio, non devono in alcun modo condizionarci negativamente, la nostra partecipazione non deve essere ossessionata dallo scopo di eleggere a tutti i costi, non deve essere questo il primo obiettivo. Bisogna osare, bisogna iniziare da subito la svolta, mettere al centro il Partito, bisogna operare una scelta ora e subito: avviare un processo di moralizzazione ad ogni livello del Partito, dare un segnale di vera discontinuità, ad iniziare dagli uomini e con un progetto che deve essere assunto, metabolizzato e portato casa per casa, posto di lavoro per posto di lavoro, attraverso l’unica risorsa veramente preziosa che il partito ha: gli iscritti, quelli che tanti dirigenti nazionali non conoscono nemmeno, ma che continuano, con dignità, a mantenere forte e viva la speranza della ricostruzione.

*Comitato Politico Federale Napoli
e Coordinatore provinciale - Area sinistracomunista* Napoli

Rifondazione e le alleanze locali

di Beniamino Simioli*

Il problema delle alleanze e dalla permanenza nelle giunte locali, tormenta Rifondazione Comunista da sempre, ma dopo lo scorso congresso di Chianciano che ha sancito la svolta a sinistra del Partito, questa questione è ritornata di primario interesse. Definire come si debba comportare nelle alleanze il Partito post-Chianciano è il dibattito che sta coinvolgendo un po' tutte le anime e le sensibilità presenti nel Prc e, in particolare, quelle che fanno parte dell'attuale maggioranza. Il problema, a nostro avviso, dovrebbe essere affrontato evitando da un lato l'opportunismo dall'altro il settarismo. Imporre regole generali (sempre in alleanza con il Pd o mai in alleanza con quest'ultimo) ad una moltitudine di casi particolari differenti tra di loro, non solo è una pratica sbagliata ma anche non marxista. E' del tutto evidente che, su questo tema, non esistono soluzioni universali e valide in ogni circostanza. Prima di decidere se allearsi o no con il centro-sinistra, prima di stabilire la nostra uscita o meno dalle giunte locali bisognerebbe,dunque, valutare concretamente quanto la nostra politica possa influenzare l'azione di governo; per far ciò occorre tenere presente alcuni criteri che non possono in alcun modo essere sottovalutati. Tra questi, il proprio radicamento sul territorio, la composizione della coalizione, il programma di governo, la capacità del nostro Partito di far rispettare gli impegni assunti, naturalmente sempre rapportandosi alla particolarità del contesto sociale in cui si agisce. Insomma, valutare i rapporti di forza con le altre formazioni politiche non è una questione di secondo piano, anzi è fondamentale. Qualsiasi discussione sui candidati o sul numero di assessori dovrebbe essere preceduta dalla discussione sui programmi politici ed è naturale che, su questo piano, ci sono alcuni punti per noi vitali e sui quali non possiamo cedere. Molti di questi sono stati più volte elencati dalla segreteria nazionale (es. la totale contrarietà alla privatizzazione dell'acqua), ma altri vanno ricercati nelle specificità di ogni singolo territorio. Dovremmo, ad esempio, mettere in chiaro, prima di siglare un'alleanza, il nostro rifiuto nei confronti di uno strumento politico come quello dell'elezione primaria, che è un meccanismo micidiale volto a distruggere i partiti, tanto più se di sinistra, come strutture organizzate di rappresentanza. Altro punto dovrebbe essere quello di pretendere che tutti i candidati della coalizione siano persone oneste e non legate ai poteri forti (legali e non). Detto questo è però necessario anche affermare che su alcune realtà, come per esempio quella campana, bisogna essere chiari. Valutare, dunque, tutti i criteri sopra elencati, insieme alle particolarità del Pd campano (che se è possibile è pure peggio di quello nazionale) e valutare oggettivamente l'operato insufficiente delle varie giunte (almeno quelle più grandi) in cui siamo presenti. In questo contesto politico, si rende necessaria sia la nostra uscita dalle giunte (in particolare quella regionale), ma anche la scelta di non allearsi nuovamente con il Pd, puntando sulla costruzione di coalizioni di sinistra, almeno fino a quando le condizioni oggettive attualmente esistenti non saranno mutate.In alcuni territori, come in Campania, ma non solo, il nostro Partito è diventato un campo di battaglia dove istituzionali più o meno legati al Pd si contendono fette di potere, imbottendo gli organismi dirigenti di persone che sono da loro economicamente dipendenti.Non possiamo permettere che tutto ciò continui, omologandoci alle usanze delle altre forze politiche. Di conseguenza è si necessario valutare caso per caso, ma è altrettanto necessario essere espliciti e diretti laddove ormai c'è ben poco da valutare.
*Comitato politico federale di Napoli
e Responsabile regionale Giovani - Area sinistracomunista* Campania

Lavoro e conflitto per tornare in campo

di Alessandro Cardulli

La Costituzione della Repubblica italiana all'articolo 1 recita: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Questo, ancor oggi, l'asse strategico di una proposta politica per costruire un'alleanza fra le forze della sinistra antagonista, anticapitalista, antiliberista, che non guardi solo alle prossime tornate elettorali, ma segni l'inizio di un percorso verso un polo anticapitalista di cui Rifondazione comunista sia e rimanga levatrice, componente fondamentale.Democrazia e lavoro, un nesso inscindibile. La campagna elettorale per le europee si svolgerà in un crescendo di devastazione della economia reale con una falcidia di milioni di posti di lavoro. La povertà morde milioni di famiglie. Non vi è dubbio che la "centralità del lavoro" deve uscire dagli slogan e diventare, appunto, l'asse strategico della battaglia anticapitalista, antiliberista. Questa è la chiave per "aggredire" il capitalismo in modo concreto e avviare un processo di trasformazione, di cambiamento, quel nuovo modello di sviluppo che andiamo cercando e non può che essere collegato alle condizioni di vita di miliardi di cittadini della terra. Lavoro che non significa solo "posto" ma anima della democrazia, dei diritti sociali, dell'uguaglianza, delle libertà collettive e individuali. Chiediamoci, estremizzando ma non troppo, perché un precario dovrebbe battersi per il testamento biologico, per disporre cioè della propria vita, quando gli è negato il diritto al lavoro garantito dalla Costituzione. O perché un migrante, "riserva strategica" del capitalismo, dovrebbe integrarsi in società che lo rifiutano, lo costringono a vivere in baracche, a fare la fame, sfruttato da padroni, quasi uno schiavo. Quali, allora, i soggetti protagonisti di una battaglia di dimensione epocale? Quelle donne e quegli uomini che sono scesi nelle strade e nelle piazze in Italia, in Francia, in Grecia, in altri paesi dell'Europa e del mondo. La classe operaia, una nuova classe operaia che si fa sentire, ha bisogno solo di trovare chi l'ascolta, nuove categorie di lavoratori che pagano un prezzo altissimo alla crisi anche in termini di professionalità. I "cipputi" e i "travet" - metalmeccanici e pubblico impiego - che scioperano e manifestano insieme, "intelletuali di massa" come gli insegnanti. Si configura una nuova lotta di classe che entra in contatto con le forze vive della società, con i movimenti, con la cultura. Il motore, il cuore della scontro, è il conflitto sociale.Nella prossima tornata elettorale il problema delle alleanze delle forze che in questo scenario si riconoscono è determinante e non solo perché esiste lo sbarramento del 4%. Alleanze per l'oggi, guardando al futuro. Uno slogan indubbiamente efficace, l'unità dei comunisti, appare, perciò, debole nella sostanza e nella prospettiva - anche se il problema della "diaspora" esiste - non all'altezza di ricreare le condizioni di una lotta di classe, del deflagrare del conflitto sociale. Piuttosto si dovrebbe parlare del ruolo dei comunisti nel costruire le necessarie alleanze e, determinante, essenziale, quello della forza più consistente, Rifondazione comunista. Si dice "a sinistra dal basso", Bene, evitando perciò che siano le segreterie di partito a decidere programma elettorale e liste, inserendo qualche nome di "indipendenti". Si può pensare che proprio Rifondazione promuova, da subito, una grande campagna per la costruzione nei territori di comitati elettorali larghi, aperti che poi si coordinano nelle grandi Circoscrizioni, gestiscono la campagna elettorale a partire dalla formazione delle liste dei candidati. Con due discriminanti: che la lista aderisca, come ha indicato la direzione del Prc, al Gue, al gruppo europeo, unitario delle forze della sinistra comunista e anticapitalista. Che il simbolo sia quello che rappresenta la storia, i valori del movimento operaio, comunista e socialista, la falce e il martello. Senza se e senza ma.
Fonte: Liberazione

Non si risale una montagna da soli

"Oggi sento la necessità di un partito organizzato e di farne parte"

di Haidi Gaggio Giuliani

Scorro in internet la rassegna stampa: la Palestina non si trova più nelle prime pagine dei grandi giornali, tra le notizie importanti. Nessuna sorpresa: altre popolazioni martoriate non ci sono addirittura mai arrivate. Quasi per caso nella vecchia posta ritrovo alcune foto scattate a Tulkarem, tre anni fa, quando sono andata ad assistere alle elezioni con ragazzi e ragazze dei Giovani Comunisti; siamo in gruppo e sorridenti, qualcuno tiene il braccio sollevato, la mano stretta a pugno: un gesto identitario? Sono successe molte cose in questi tre anni; i social forum, che erano la nostra speranza, nati dallo spirito di Genova 2001, si sono per lo più disciolti come neve al sole; alcuni di quei ragazzi sono andati "oltre", dove non mi è chiaro e, quel che è peggio, temo non sia chiaro neppure a loro stessi.
Siamo di fronte a una gravissima crisi economica frutto di venti anni di politiche liberiste che hanno precarizzato il lavoro, tagliato i salari e accresciuta la ricchezza di ladri ed evasori. Le fabbriche chiudono; i lavoratori continuano a morire. Non c'è sicurezza per loro. Rischia di scomparire il Contratto nazionale di lavoro, scompaiono cioè le garanzie collettive sui salari e sui diritti, conquistate in tanti anni di lotte. In cambio ricompaiono i manganelli contro gli operai, a Pomigliano, contro i lavoratori dell'Innse a Milano. Non c'è sicurezza per chi difende il proprio territorio, la vita dei propri figli: linea dura delle forze dell'ordine contro i No dal Molin a Vicenza, città d'arte con coprifuoco militare. Come in Valsusa, si pretende di gestire con la forza la pacifica contestazione degli abitanti. Ma la "grande informazione" non ne parla. Non c'è sicurezza neanche per le donne nelle vie delle nostre città e, soprattutto tra le pareti domestiche, perché non saranno certamente leggi più repressive, a difenderle, bensì una cultura più diffusa, una maggiore attenzione ai problemi delle persone, maggiore partecipazione alla vita nelle città. «Ser culto es el único modo de ser libre» , ricordava José Martí nell'ottocento, ma qui la cultura viene umiliata ogni giorno, la scuola pubblica impoverita: è meglio non allevare giovani cittadini capaci di pensare con la propria testa perché potrebbero un giorno diventare uomini e donne davvero liberi. Non c'è più neppure la speranza di poter morire in pace. In cambio ritornano le leggi razziali. Assistiamo quotidianamente a colpi di mano contro la giustizia e la civiltà: medici trasformati in spioni contro gli ammalati più poveri, tanto poveri da non possedere nemmeno un documento; legalizzate le ronde; proibito indagare negli affari di lorsignori. Vengono votate in Parlamento leggi ordinarie che svuotano di significato la Carta costituzionale. In questo panorama l'opposizione a volte cinguetta con la maggioranza, a volte balbetta; quello che un tempo era il blocco sociale della sinistra si va sbriciolando.E allora io ho sentito, sento la necessità di un partito organizzato, e di farne parte. Un partito con le idee chiare. Che conosca le proprie radici e sappia anche riconoscere i propri errori; determinato a stare sempre dalla parte delle persone più deboli, sfruttate, derubate dei propri diritti, violentate nel corpo e nella vita. Voglio stare in un'organizzazione capace di discutere con forza al proprio interno e poi dichiarare apertamente quello che pensa e lavorare per raggiungere gli obiettivi individuati; capace di intervenire dove si apre un conflitto; e che quando decide di stare al fianco di grandi movimenti spontanei, come di piccole realtà, poi non li abbandona; capace altresì di denunciare le contraddizioni e di dare vita a nuovi conflitti. Voglio un partito determinato a risvegliare coscienze, disposto sempre a confrontarsi e a collaborare con altre organizzazioni, tutte le volte che è possibile; senza preconcetti ma senza nessun cedimento: un partito con le idee chiare, appunto. E voglio che il mio partito si faccia maestro e sappia fare scuola: deve sapere prima di tutto ascoltare i ragazzi e le ragazze, senza promettere facili carriere politiche ma insegnando con rigore sia la teoria come la pratica quotidiana. Perché è vero che moltissimi giovani sono nauseati dalla politica e pensano che non valga la pena di agire in una società come la nostra ma noi dobbiamo riuscire a dimostrare, come dicono le Madri argentine, che l'unica battaglia persa è quella che si abbandona. Ci riusciremo se sapremo essere onesti; se sapremo mettere da parte personalismi, leaderismi… Non si risale una montagna, non si conquista una cima da soli: si vince tutte e tutti insieme; ognuno con il proprio zaino, con il proprio carico di ricchezze e di errori, ma insieme. Ecco, così penso alla mia Rifondazione. Ma se voglio davvero che sia sempre più così, e sempre più grande, ci devo stare dentro. E lavorare.
Fonte: Liberazione

Zimbabwe, oltre 70mila contagiati dal colera Ma Mugabe festeggia a caviale e champagne

Sabato prossimo ad Harare si terrà il party per gli 85 anni del Presidente mentre nel paese si sotterrano i cadaveri

di Francesca Marretta

«Non si riesce a finire di mangiare un elefante intero», dice il proverbio africano. Spolpare fino all'osso un intero paese dell'Africa, invece si può. Non lo racconta il proverbio, ma la storia recente dello Zimbabwe. Il cui capitolo piú attuale è a dir poco emblematico della situazione.Il ventuno febbraio scorso, il Presidente Robert Mugabe, che governa l'ex Rhodesia dal 1980, ha compiuto 85 anni, diventando il più anziano leader africano. Nonostante la spaventosa crisi economica attuale vissuta da un paese noto un tempo come granaio dell'Africa, e nonostante la gravissima epidemia di colera che imperversa in Zimbabwe da cinque mesi, la macchina organizzativa che in queste ore traina il paese è quella che si occupa dell'organizzazione del festeggiamenti per il compleanno del Presidente. Che si terranno con celebrazioni in pompa magna sabato prossimo ad Harare. Per avere un'idea della spesa che sarà sostenuta, basta dare un'occhiata ad alcune voci che figurano nella lista della spesa prevista per la festa. Ottomila aragoste, ottomila scatole di Ferrero Rocher, tremila anatre, sedicimila uova, cento chilli di gamberoni, cinquemila chili di formaggio, quattromila porzioni di caviale, cinquecento bottiglie di whisky Johnny Walker etichetta blu, Chivas invecchiato 22 anni e duemila bottiglie di Champagne. Naturalmente Moët & Chandon. «Altrimenti desisti», avrebbe detto Totò. Durante gli anni del regime di Mugabe, lo Zimbabwe ha visto precipitare l'aspettativa di vita della popolazione da sessant'anni a trentaquattro, la piú bassa del Continente. Se la situazione dello Zimbabwe non fosse drammatica, il lusso sfrenato che farà da cornice alle danze in cui si dimeneranno gli attempati ma arzilli Robert e Grace Mugabe, osannati da qualche migliaio di accoliti, chiamati a raccolta dallo Zanu-Pf, il partito del Presidente, potrebbe far apparire l'intera vicenda come una farsa. Anche più raccapriccianti si rivelano i retroscena organizzativi di cui ha dato notizia la stampa britannica. Durante le giornate di raccolta fondi per il party in onore del Presidente, sarebbero state avanzate, agli imprenditori del paese, richieste di contributi fino a 110mila dollari a testa ed altre donazioni "volontarie" alla popolazione. Il leader dell'organizzazione giovanile del partito, Absolom Sikhosana, parlando alla radio, avrebbe tuttavia ammesso che quest'anno la raccolta fondi sarebbe stata più ardua rispetto al passato, data la difficile situazione in cui versa il Paese. «Sappiamo che sono tempi duri» ha dichiarato on Air rivolto al popolo dello Zimbabwe Sikhosana, «ma sarà bello onorare le offerte che avete fatto». L'anno scorso la festa di compleanno del presidente era costata 1,2 milioni di dollari. Pare che quest'anno, gli organizzatori fedeli al Presidente, si rendano conto di non potersi aspettare un risultato simile. In qualche modo, anche la cricca presidenziale deve fare i conti con gli oltre 80mila casi di colera registrati nel paese, in base a dati dati diffusi dall'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms). Secondo la stessa organizzazione, nei cinque mesi da cui dura l'epidemia sono morte quasi quattromila persone. Si tratta di dati pubblicati oltre due settimane fa, che andrebbero aggiornati per eccesso. Se seppellire trentaquattro morti al giorno per colera non bastasse a far passare la voglia a molti cittadini dello Zimbabwe di festegguare il padre-padrone del paese, si può aggiungere all'affresco che ritrare il volto raggrinzito del paese sudafricano, l'ultimo record battuto dal tasso d'inflazione: 231 milioni per cento. In queste condizioni, un tasso di disoccupazione ufficiale intorno al 94% non sorpende nessuno. Descrivere lo Zimbabwe come un paese al collasso è un eufemismo. Il paese è collassato da tempo. Il colpo di grazia, non solo per l'economia, ma per la democrazia, è arrivato nei violentissimi giorni che hanno caratterizato il voto dello scorso anno. Che aveva premiato al primo turno, il 29 marzo, Morgan Tsvangirai, leader del Movement for Democratic Change (Mdc) ed attuale Premier del governo di unità nazionale, che aveva battuto Mugabe senza raggiungere la maggioranza necessaria ad essere eletto Presidente senza ballottaggio. Secondo molti osservatori, per evidenti brogli. Tra quella data ed il secondo turno, tenuto il 27 giugno scorso, lo Zimbabwe è stato investito da una campagna di terrore contro gli oppositori del Regime. Omicidi, stupri e violente intimidazioni, allestite sopratutto nelle zone interne del paese dalle bande fedeli al Presidente perpetuo Mugabe. Elezioni definite «una farsa» dall'opposizione e fortemente condannate dalla comunitá internazionale. Quello scandalo elettorale ha partorito l'attuale governo di unitá nazionale. Che per la leadership dell'Mdc perde credibilitá ogni giorno che passa. Considerato anche che uno dei punti cardine per pervenire all'accordo tra Mugabe e Tsvangirai per formare l'esecutivo e uscire dall'impasse istituzionale e dalla lacerazione che investiva e che tuttora investe il paese, era la scarcerazione degli attivisti politici dell'Mdc. Molti dei quali sono ancora in galera.Un tempo considerato l'eroe anticolonioalista per antonomasia del continente africano, per aver ottenuto l'indipendenza dall'ex Rhodesia dalla Gran Bretagna 29 anni fa, Mugabe ha visto svanire la propria popolarità e reputazione in patria, come sulla scena internazionale. La stampa britannica, che il Presidente taccia di faziosità nei suoi confronti, avendo nel corso della sua lunga azione di governo nazionalizzato le terre da cui aveva spodestato i farmer britannici, ha rivelato che mentre la popolazione dello Zimbabwe è alla fame, la First Lady di Harare si puó permettere di comprare statue di marmo in Vietnam per un valore di 55mila sterline, e pagare in contanti un conto d'albergo ad Hong Kong per 10mila sterline. «Mentre Mugabe oranizza feste per il suo ottantacinquesimo compleanno, un bambino su dieci nel suo paese non raggoingerá il quinto anno di età» ha dichiarato nei giorni scorsi la portavoce di Save the Children in Zimbabwe Sarah Jacobs, che ha aggiunto: «molte delle loro madri, non vivranno nemmeno la metá degli anni del Presidente». Che a differenza dei propri connazionali si mantiene in forma a forza di compleanni a base di caviale e champagne.
Fonte: Liberazione

Ferrero: banche, controllo pubblico e neanche 1 euro a banchieri

Dichiarazione di Paolo Ferrero, segretario nazionale Prc
Il governo vuole "la socializzazione delle perdite, senza che lo Stato possa intervenire sul modo in cui vengono investiti i capitali". Paolo Ferrero boccia senza appello "le misure sulle banche assunte fin qui dall'esecutivo".Secondo il segretario di Rifondazione "e' il contrario di cio' che bisognerebbe fare. Non bisogna mettere un solo euro per i banchieri e bisogna tornare, invece, a una situazione di controllo pubblico delle banche, in modo da indirizzare il credito verso le produzioni che servono e non verso la speculazione finanziaria".

Ferrero: idea di tornare a fare centrali nucleari è semplicemente una follia

Dichiarazione di Paolo Ferrero, segretario nazionale del Prc
L’idea di ritornare a fare centrali nucleari è semplicemente una follia. Il segretario di Rifondazione comunista, Paolo Ferrero, boccia il ritorno dell'Italia al nucleare e spiega: "Per sismicità del territorio e densità di popolazione non c'e' in Italia un sito che abbia le caratteristiche che, ad esempio, negli Stati Uniti sono richieste per poter costruire una centrale nucleare. Il problema sarebbe di sviluppare in Italia, un paese baciato dal sole, le tecnologie energetiche alternative e il risparmio energetico. Invece, facciamo meno della metà dell'energia prodotta con il sole dalla Germania e questa è davvero una bestemmia". Il problema è che il governo, conclude Ferrero, "fa bene attenzione a non dire dove vogliono mettere le centrali e quando lo si saprà credo che nascerà un movimento che glielo impedirà".

Accordo Berlusconi-Sarkozy sul nucleare: nuove centrali in Italia

di Sergio Vasarri

Siglata l'intesa tra Italia e Francia. L'Italia si converte al nucleare. Decisione unilaterale del Governo che taglia fuori Parlamento e opposizione su una scelta energetica strutturale
ROMA - Più veloce della luce, come diceva un famoso supereroe di fumetti e film. Così è stato il raggiungimento dell'accordo e la firma dell'intesa tra i primi ministri di Francia e Italia, Nicolas Sarkozy e Silvio Berlusconi.

I due leader si sono incontrati oggi a Villa Madama nell'ambito di un vertice bilaterale italo-francese, che ha toccato anche altri punti rilevanti nelle relazione tra i due paesi. Tra questi il settore dei trasporti e le grandi direttrici europee (la Tav Torino-Lione ad esempio), la crisi finanziaria e gli scenari internazionali - Afghanistan e Libano - dove Italia e Francia sono maggiormente impegnate.L'intesa prevede una stretta cooperazione tra i due Paesi per la produzione di energia atomica e la conseguente costruzione nel nostro Paese di ben quattro nuove centrali di terza generazione.
Il premier Berlusconi e il suo governo non la smettono mai di stupire: intanto si procede alla firma di un'intesa internazionale, per modificare il quadro normativo e quindi approvare il ddl Scajola ci sarà tempo. Il ddl del Ministro dello Sviluppo Economico, infatti, porta ad una svolta epocale nelle politiche energetiche del nostro Paese: un cammino verso il nucleare che prevede la costruzione di quattro nuove centrali, la prima operativa nel 2020, ognuna con una potenza di 1600 megawatt, per un totale di 6400 megawatt, ovvero il 25 per cento dei consumi energetici italiani. Le centrali sono del tipo Epr (European pressurized water reactor), della classe dei reattori nucleari ad acqua pressurizzata. Se tale tecnologia offre maggiori garanzie dal punto di vista della sicurezza, non presenta alcuna novità sul vero punto dolente della produzione di energia nucleare: le scorie. Non vi è infatti ancora alcuna tecnologia in grado di smaltire in maniera sostenibile le scorie altamente inquinanti che residuano dal ciclo di produzione dell'energia atomica. Berlusconi ha detto che “è una gioia aver firmato questi accordi sul nucleare”, finora impediti dal “fanatismo ideologico degli ambientalisti e della sinistra”. Per l'opposizione si tratta di una scelta che avrebbe dovuto essere condivisa e che in questi termini regala alla Francia e alla EDF asset fondamentali nella politica energetica italiana, a tempo indeterminato.
Fonte: dazebao.org

Napolitano “barcocchia” il governo per i tagli all’Università

dalla Redazione di Dazebao

E’ stato quasi un “messaggio al Paese” l’intervento pronunciato dal Presidente della Repubblica per le celebrazioni dei 700 anni dell’Università di Perugia, nel corso del quale ha apertamente criticato le scelte del governo per quanto riguarda gli atenei e la ricerca. Ha affermato che occorre rivedere alcuni tagli che sono stati apportati, tagli “indiscriminati”, e che servono “valutazioni e interventi pubblici puntuali”, più risorse a attenzione per gli atenei che sono “leva di sviluppo”.
Ha sottolineato la necessità di definire le riforme dell’Università evitando pericolose “generalizzazioni liquidatorie”. Occorre guardare con “coraggio” ai problemi della ricerca, anche in riferimento a quanto si sta facendo nel resto dell’Europa. Stizzita la replica del ministro Mariastella Gelmini, la quale richiama la difficile situazione di crisi e, pur condividendo “le preoccupazioni del presidente Napolitano”, in questa fase dice che “è necessario investire il denaro pubblico con grande attenzione e oculatezza”. Poi, negando perfino l’evidenza, afferma che non di tagli si è trattato ma di “eliminare le spese non necessarie accumulate negli anni a causa di gestioni universitarie poco oculate”. L’immancabile Brunetta non ha perso occasione di prendere la parola, affermando che “non ci sono stati tagli indiscriminati, anzi abbiamo salvato l’Italia con la manovra di luglio”. Il presidente della Repubblica, nel sottolineare il suo diritto a fare “richiami pubblici”, non aveva taciuto in merito alla “straordinaria difficoltà per via della crisi economica e finanziaria e dei pesi che l’Italia si porta dietro, tra cui l’ingente debito pubblico. Ma – aveva proseguito – l’esigenza rimane comunque quella di salvaguardare il nostro capitale umano. La ricerca e la formazione sono la leva fondamentale per la crescita dell’economia. Questa è una verità difficilmente contestabile”. Aveva così già dato risposta alle prevedibili sciocchezze della “neo-economista” Gelmini e ad un economista per scherzo, quale il ministro Brunetta. A maggior chiarezza ha aggiunto che occorre evitare “la dispersione di talenti e dei risultati del nostro sistema scolastico e universitario” troppo spesso non tradotti “in occasioni di lavoro e sviluppo. La chiave di volta per risolvere il problema è una accurata politica che sappia tenersi saggiamente in equilibrio tra il rigore della spesa e la necessità dell’investimento lungimirante”. A Gelmini e Brunetta, dopo aver dichiarato il pieno accordo con Napolitano, risponde Paolo Ferrero. “Se il governo Berlusconi – afferma il segretario del Prc – non ha soldi per finanziare università e ricerca, così come la scuola pubblica, metta mano a una tassazione seria dei grandi patrimoni, reintroduca una patrimoniale sulla grandi ricchezze e vedrà che in soldi li trova”. Napolitano ha parlato in un’aula gremita. Ha ricevuto anche il saluto e la solidarietà del rappresentante degli universitari perugini e del movimento Sinistra Universitaria-Unione degli studenti, per la difesa che sta facendo della Costituzione. Più volte in questi giorni, hanno affermato, “messa in discussione con provvedimenti che minano la libertà di scelta di ciascun cittadino. Un grazie “per non essersi piegato alla volontà di pochi”.

Ferrero: Draghi ha ragione nel lanciare allarme. Necessario sostenere redditi ed estendere Cig a tutti

Dichiarazione di Paolo Ferrero, segretario nazionale del Prc
L'allarme lanciato oggi dal governatore di BankItalia Mario Draghi mi trova perfettamente d'accordo. Siamo nel pieno di una devastante crisi economica e di una profonda recessione, ci aspettano anni drammatici in cui andrà "sostenuto il consumo delle fasce più deboli", come dice Draghi, e in cui "La caduta della domanda può colpire con particolare intensità le fasce deboli e meno protette, i lavoratori precari, i giovani, le famiglie a basso reddito", come nota sempre Draghi.Ecco perché è assolutamente necessario sostenere i redditi da lavoro e da pensione, aumentare redditi e salari, estendere la cassa integrazione a tutti i lavoratori che perdono il posto di lavoro, a partire dai lavoratori delle piccole e piccolissime aziende e dai precari. Draghi si è accorto della gravità della crisi, il governo non fa nulla e soprattutto non aiuta né i salari né chi perde il posto di lavoro.

Concluso il referendum nelle scuole. I lavoratori bocciano il nuovo contratto

di Fulvio Lo Cicero
Cisl e Uil hanno cercato in tutti i modi di sabotare uno strumento fondamentale di democrazia, perfino in violazione dello Statuto dei lavoratori. Pantaleo (Flc-Cgil): “Il nuovo contratto non risponde alle attese del mondo della scuola”.

ROMA – Una grande partecipazione di lavoratori ha caratterizzato il referendum voluto dalla Cgil a seguito del rinnovo del contratto di comparto nella scuola italiana, siglato da Cisl, Uil, Snals, Gilda, Confsals, ma non dal sindacato di Corso d’Italia. Il leader Guglielmo Epifani e il segretario della Flc-Cgil Domenico Pantaleo hanno espresso la loro soddisfazione in una conferenza stampa a Roma, dove hanno illustrato e commentato i risultati referendari. “Non abbiamo sottoscritto l’intesa” ha spiegato Pantaleo, “perché insufficiente a recuperare il potere di acquisto dei salari, perché non propone nessuna soluzione al problema del precariato e perché non risponde alle attese del mondo della scuola sul versante professionale”.
Epifani ha espresso tutta la sua soddisfazione perché, ha affermato, “è evidente che i lavoratori della scuola vogliono poter decidere su ciò che li riguarda. E quella dello sciopero è una scelta importante e per noi un segnale di grande coerenza”.
I numeri di coloro che hanno votato fino al 16 febbraio scorso è alto. Su 966.383 aventi diritto al voto nelle sedi di tutti gli istituti italiani, hanno espresso la loro opinione ben il 39% (376.926), con una schiacciante maggioranza di persone contrarie al nuovo contratto (351.053, cioè il 94,65%). Il Presidente della Commissione di garanzia che ha monitorato le procedure di voto, Benedetto Vertecchi, ha dichiarato: “non posso che esprimere il mio apprezzamento per i lavoro svolto, che testimonia della serietà e dell’impegno col quale le operazioni si sono susseguite nei diversi ambiti territoriali”.
Ma sul referendum si sono sollevate numerose e forti polemiche fra la Cgil e i sindacati firmatari del rinnovo contrattuale di dicembre. In una nota congiunta, Cisl, Uil, Snals e Gilda hanno polemicamente sottolineato che “un sindacato responsabile non firma un contratto soltanto quando sa di poterne firmare uno migliore”. Inoltre, aggiunge il comunicato, “è sempre facile giocare ad alzare la posta, ma non è con un referendum bluff che si può ottenere un contratto migliore: un referendum così proposto assomiglia più ad un atto di propaganda che ad un gesto di democrazia”.
La Flc-Cgil ha sottolineato come sia grottesco dichiarare un “bluff” uno strumento essenziale di democrazia come un referendum fra i lavoratori, diretti destinatari di un contratto che, di fatto, “sancisce la riduzione del potere di acquisto per i lavoratori, anziché aumentarlo” mentre i sindacati firmatari “non sentono la necessità di chiedere loro cosa ne pensano”. È già stata avviata, comunica la Flc-Cgil la campagna di informazione per il referendum sul contratto biennale dell’università e la promozione di assemblee sui luoghi di lavoro i riferimento all’ipotesi di riforma delle regole contrattuali, firmata da Governo, Confindustria, Cisl e Uil.
Bisogna segnalare che Cisl e Uil hanno fatto di tutto per impedire l’effettuazione del referendum da parte della Cgil e la stessa partecipazione dei lavoratori alla consultazione. In molte regioni, così come a livello nazionale, i vertici di questi due sindacati hanno diramate vere e proprie “diffide” alle proprie rappresentanze per adoperarsi affinché al referendum non partecipassero i propri iscritti e tutti coloro che non erano iscritti alla Flc-Cgil. Tutto ciò, ha sottolineato Flc-Cgil, in palese violazione dell’articolo 21 dello Statuto dei lavoratori, il quale sancisce chiaramente che il referendum può essere svolto da “tutte le rappresentanze sindacali aziendali tra i lavoratori”, con “diritto di partecipazione di tutti i lavoratori appartenenti alla unità produttiva e alla categoria particolarmente interessata”. Tale norma è stata interpretata in favore del referendum anche dalle direzioni scolastiche regionali che hanno inviato ai dirigenti una specifica comunicazione con l’invito ad agevolare l’effettuazione del referendum.
La presa di posizione di Cisl, Uil, Snals, Gilda, Confanls appare dunque incongrua, soprattutto perché, come affermano questi stessi sindacati, “rappresentano il 71% della categoria” e dunque non avrebbero avuto nulla da temere da una partecipazione dei loro iscritti al referendum. La realtà, secondo Flc-Cgil, è che tale contrapposizione “nasconde una difficoltà politica, che è quella di giustificare la firma di un contratto che impoverisce le retribuzioni dei lavoratori della scuola, con una diminuzione del 32% degli incrementi ottenuti con il contratto precedente, riduce le risorse del Fondo di istituto, legittima le crociate antipubbliche del ministro Brunetta, apre pericolosamente la strada ad un complessivo impoverimento dello strumento contrattuale”.
Fonte: dazebao.org

Ferrero: ha ragione Napolitano, no a tagli su istruzione. Se il governo ha bisogno di soldi, intruduca la patrimoniale

Dichiarazione di Paolo Ferrero, segretario nazionale del Prc
Sono pienamente d'accordo con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. La logica dei "tagli indiscriminati" non può e non deve riguardare il mondo della scuola, dell'università e della ricerca.
Come dice Napolitano, "la ricerca e la formazione sono la leva fondamentale per la crescita dell'economia". Se il governo Berlusconi non ha i soldi per finanziare l'università e la ricerca, così come la scuola pubblica, metta mano a una tassazione seria dei grandi patrimoni, reintroduca una patrimoniale sulle grandi ricchezze e vedrà che i soldi li trova.

Ferrero: Istat, dati produzione industriale pesantissimi. Governo non ha politica industriale

Dichiarazione di Paolo Ferrero, segretario nazionale Prc
I dati che arrivano dall'Istat sulla produzione industriale continuano a essere pesantissimi. Cala il fatturato dell'industria, calano gli ordinativi, dati davvero preoccupanti se accostati al dimezzamento della produzione automobilistica e alla media della produzione industriale, crollata del 10% rispetto a un anno fa. Cosa fa il governo di fronte a tutto questo? Una semplice politica di incentivi all'auto, priva di una seria politica industriale e dell'elemento centrale, l'aumento secco di stipendi e pensioni, non serve praticamente a nulla. Berlusconi dirà che anche questi dati sono frutto dell'invenzione di giornali comunisti o che anche l'Istat non fa che spargere pessimismo?

Istat, produzione in calo e cassa integrazione alle stelle

di Anna Maria Bruni

Dati drammatici sulla produzione diffusi oggi dall'Istat. Nessuna misura da parte del governo per contrastare la crisi, mentre la Commissione europea contesta gli “aiuti” per l'auto: gli incentivi sono una misura selettiva
ROMA - Produzione in picchiata per l'industria italiana. E' quanto emerge dai dati Istat diffusi oggi.

L'Istituto ha reso noto che a dicembre il fatturato è diminuito del 3,8% e del 10,3% su base annua, mentre gli ordinativi sono calati del 2% rispetto al mese precedente e del 15,4% rispetto al dicembre 2007. I dati negativi interessano tutti i settori produttivi, con l'unica eccezione del settore alimentare, delle bevande e del tabacco, che registrano il segno più.La media per il 2008 registra una flessione dello 0,3% per quanto riguarda il fatturato, e del 3,2% per gli ordinativi. L'ultimo trimestre dell'anno è il periodo che più incide sulla flessione: negli ultimi tre mesi del 2008 infatti il fatturato è diminuito dell'8,3% e gli ordinativi del 18%.Gli ordinativi registrano un calo maggiore in ambito estero (-19,7% a dicembre e -6,6% nella media 2008), mentre in ambito nazionale la riduzione è più contenuta (-13,1% a dicembre gli ordinativi nazionali, -1,3% la media 2008; -19,7% il calo sugli ordinativi esteri a dicembre, -6,6% la media 2008). Viceversa il calo del fatturato è minore in ambito estero (-7,6%) rispetto a quello nazionale (-11,4%).I dati che riguardano la produzione vedono tutti i settori in crollo: in particolare i più colpiti sono la produzione di metallo e prodotti in metallo, in flessione del 21,4%, l'industria del legno e i prodotti in legno, esclusi i mobili, -20,1%, e prodotti chimici e fibre sintetiche -19,8%.Unico dato positivo fornito dall'Istat riguarda l'indice del fatturato cresciuto, nel mese di dicembre 2008 rispetto allo stesso mese del 2007, del 3,2% per i beni di consumo, media che scomposta rivela un -11,4% per i beni durevoli a fronte di un 6,5% positivo per quelli non durevoli.Altre diminuzioni tendenziali sono invece registrate per l'energia, 28,8%, per i beni intermedi (materie prime), 10,2% e per i beni strumentali, 10,2%.Ma il dato peggiore riguarda il settore automobilistico. A dicembre il fatturato è crollato del 29,6% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente, e gli ordinativi sono scesi del 33,3%. Il dato medio del 2008 vede un calo del 7,6%, che riporta il settore ai livelli del '93, mentre per quel che riguarda gli ordinativi bisogna andare all'anno precedente, dove si ritrova una contrazione paragonabile a quella in corso, ovvero meno 11,4%.Proprio nel giorno in cui il portavoce della Commissione europea Jonathan Todd esprime “preoccupazione” in merito agli incentivi sulla rottamazione decisi dal governo italiano, i dati nel settore auto scoprono definitivamente le carte. Mentre la produzione è in picchiata, gli stabilimenti sono fermi, la cassa integrazione è in aumento e 5000 lavoratori atipici hanno perso il lavoro già dallo stesso mese di dicembre, il governo italiano, in controtendenza rispetto ai consistenti investimenti di altri governi europei e statunitense, si è speso per attivare bonus per incentivare il consumo. Infatti, secondo Todd, “l'aiuto sarebbe discriminatorio, selettivo, e contrario alla libera circolazione dei beni". Mentre “La cassa integrazione si estende anche ai colletti bianchi e questo conferma che la crisi è ben lungi dall'essere conclusa e sotto controllo”. A dirlo era il segretario generale della Fiom di Torino, Giorgio Airaudo, dopo aver appreso che la Fiat avrebbe messo in cassa integrazione per due settimane anche gli impiegati del settore auto e Powertrain. Era il 7 gennaio.La richiesta di parte sindacale era ed è di puro buon senso: “È indispensabile conoscere su quali prodotti si sta lavorando per rilanciare la Fiat e capire in che relazione sia la cassa integrazione degli impiegati - aveva detto il segretario torinese - con il proposito di nuove alleanze. In una situazione europea frammentata, dove ogni paese fa la propria strategia auto, è urgente l'intervento del governo - concludeva - a tutela del patrimonio italiano dell'autoveicolo. L'auto si può salvaguardare puntando su innovazione e mobilità sostenibile”. Il giorno dopo il governo rispondeva approvando gli incentivi alla rottamazione.Ma se questi sono i risultati per l'auto, negli altri settori non va meglio. Sempre a dicembre, lo stesso mese di riferimento per i dati Istat sulla produzione, i dati Inps sulla cassa integrazione riportano un +525 per cento complessivo sullo stesso mese del 2007. Il ricorso dei settori edile e industriale è aumentato del 110 per cento. In totale, nel 2008 le ore complessive di cassa integrazione (ordinaria e straordinaria) sono state 223 milioni. Ma non abbiamo ancora sentito parlare di piani di programmazione economica, né tantomeno di investimenti.
Fonte: dazebao.org

27 Febbraio: sciopero generale a Pomigliano

Comitato Politico Federale Prc Napoli
Adesione allo sciopero del comprensorio di Pomigliano
Venerdi 27 febbraio, sotto la spinta della mobilitazione dei lavoratori della Fiat auto e dell’indotto, le organizzazioni sindacali hanno proclamato uno sciopero con manifestazione del comprensorio di Pomigliano D’Arco, contro la crisi economica e per la difesa degli insediamenti produttivi e dei livelli occupazionali.
La lotta dei lavoratori della Fiat auto ha messo in campo un protagonismo operaio che non vedevamo da tempo, rendendo chiara la determinazione ad andare fino in fondo in questa battaglia decisiva per il futuro non solo della Campania ma di tutto il Mezzogiorno.
All’interno di questa lotta il circolo Prc Fiat auto-Avio sta giocando un ruolo importante attraverso i suoi militanti impegnati anche come delegati sindacali e dirigenti della Fiom alla testa della mobilitazione, protagonismo pagato con il fermo di un compagno durante la repressione poliziesca della scorsa settimana.
TUTTO il Partito della Rifondazione Comunista deve essere coinvolto in queste vertenza decisiva individuandola come la chiave per ricostruire, a partire dai luoghi di lavoro e dal conflitto, il proprio radicamento sociale.
Il Cpf di Rifondazione Comunista aderisce allo sciopero del 27 Febbraio e mobilita tutti i lavoratori, i militanti e le strutture del partito per la riuscita della manifestazione, partecipandovi in modo organizzato e con un proprio spezzone.Si impegna altresì a promuovere una campagna per la convocazione di uno sciopero generale regionale di tutte le aziende in crisi affinché la crisi la paghino i padroni.
Antonio Santorelli
Jacopo Renda
Mario Maddaloni
Tommaso Sodano
Franco Nappo
Eugenio Giordano
Antonio D’Alessandro
Rino Malinonico

Ferrero-Pegolo: Bologna, Loreti, Prc esercita democrazia. Verifica con Pd, poi consultazione vincolante iscritti

Dichiarazione di Paolo Ferrero, segretario nazionale del Prc, e Gianluigi Pegolo, esponente segreteria nazionale Prc, responsabile area Democrazia e istituzioni
Riguardo alle dichiarazioni dell'ex segretario del Prc di Bologna Tiziano Loreti. non capiamo perché il normale esercizio della democrazia debba diventare sempre fonte di accuse infamanti. Il gruppo dirigente del Prc di Bologna ha democraticamente deciso di procedere nel confronto con il Pd per il post-Cofferati, come era già stato precedentemente stabilito. Nei prossimi giorni vedremo quale sarà l'esito del confronto, che è del tutto aperto.A scanso di equivoci pensiamo sia bene che nella federazione di Bologna vi sia, a conclusione della verifica programmatica e prima di assumere ogni decisione su eventuali accordi, una consultazione vincolante degli iscritti della federazione e invitiamo Loreti a partecipare a questa consultazione. Di fronte a un conflitto non riusciamo infatti a capire quale altra via vi possa essere se non l'espressione democratica degli organismi dirigenti e degli iscritti. Noi non siamo in un partito in cui il segretario ha sempre ragione e Loreti dovrebbe saperlo.

Lettera aperta alla maggioranza di Chianciano.

di Ramon Mantovani
Care compagne e cari compagni,
scusate se prendo la parola in questo modo ma l’urgenza dei problemi di cui intendo parlarvi e l’assenza, nei prossimi giorni, di riunioni nelle quali difendere le mie posizioni non mi lasciano altra scelta.
Come sapete da tempo sostengo che il principale problema che abbiamo non sia la scissione o le scelte connesse alle elezioni europee. Continuo a pensare che il progetto della rifondazione comunista sia in pericolo di vita soprattutto per due questioni che rimangono irrisolte, e sulle quali, anzi, vedo gravi arretramenti.
I problemi sono, e mi scuserete la sommarietà del ragionamento, le elezioni amministrative e più in generale le nostre esperienze di governo locali da un lato e lo stato del partito sui territori dall’altro.
Sono, come si vedrà, problemi intimamente collegati. Ma per comodità di esposizione li descriverò separatamente.
La sconfitta di Soru in Sardegna secondo me dovrebbe farci dire due cose: 1) il centrosinistra in tutte le sue varianti, autosufficienti o meno, è morto. 2) il sistema politico (quello elettorale, delle relazioni fra forze politiche fondate sulla logica bipolare) è irriformabile dall’interno.
In altre parole i problemi per la democrazia in Italia non vengono solo da Berlusconi e dalle tentazioni autoritarie, reazionarie e razziste della destra. Vengono anche, se non soprattutto, da un sistema politico che è intrinsecamente separato dalla società e votato ad escludere dalla rappresentanza il conflitto sociale. E’ evidente che si è creato un circolo vizioso per cui il frontismo, ed ogni possibile riedizione del centrosinistra, è destinato a rafforzare la destra e a produrre crisi drammatiche nello stesso PD che scopre, senza avere nessuna possibilità di uscita dalla logica che ne ha determinato la nascita, di essere la prima vittima della logica bipolare. Nel pieno di una crisi “costituente” e di lunga durata l’alternanza sembra destinata ormai ad essere solo una possibilità astratta. Con ogni probabilità qualsiasi nuovo gruppo dirigente del PD tutto farà tranne che abbandonare la prospettiva dell’alternanza, condannandosi così ad accentuare la propria subalternità alla destra e alla cultura dominante. Sia che scelga di competere con la destra sul suo stesso terreno sia che scelga una riedizione del frontismo privo di contenuti sociali realmente alternativi, che sono e rimangono incompatibili con l’alternanza.
E’ un quadro desolante e grave ma non credo proprio che si possa sfuggire alle implicazioni che comporta.
La prima delle quali è che non si può stare in mezzo al guado. Non si può, cioè, di fronte a tutto questo cavarsela con la proclamazione di una svolta a sinistra, con buone e magari buonissime dichiarazioni politiche, con qualche lodevole esperienza di ricostruzione sociale, ed essere contemporaneamente, in centinaia di comuni, province e regioni, parte integrante del centrosinistra e di un sistema politico (perfino nella collocazione di opposizione istituzionale) irriformabile, lo ripeto, dall’interno.
Ovviamente non propongo, lo dico a scanso di equivoci, un esodo dalle istituzioni e l’autonomia del sociale. Propongo solo di prendere atto di una realtà evidente e di abbandonare ogni illusione che si possa, dall’interno o dall’opposizione nelle istituzioni, ottenere una svolta a sinistra del centrosinistra. Propongo di rendere evidente il nostro antagonismo nei confronti del sistema politico esistente. Propongo di smetterla di pensare che nei governi locali si possa fare qualcosa capace di invertire la tendenza senza contenuti esplicitamente fuori dalle compatibilità del sistema stesso. Il partito sociale non può essere un dettaglio, una evocazione della natura di classe e popolare del partito o peggio ancora un espediente propagandistico. O è l’anima di un progetto politico che si propone la distruzione dell’attuale sistema politico o non serve a nulla.
Non si può all’infinito oscillare tra rotture ed accordi minimalisti con il centrosinistra senza produrre un’idea alternativa di politica rispetto a quella bipolare, compatibilista e congegnale ad un sistema capitalistico in profonda crisi. Senza questa politica “altra” la separatezza del sistema politico vigente dalla società è destinata ad aumentare e il progetto di rifondazione comunista ad essere dilaniato dai due poli del dilemma. Possiamo diventare un più grande Pdci o una più grande Sinistra critica, ma non essere ciò che vorremmo. Un partito comunista dotato di un progetto che per lo meno tenti di cambiare davvero la situazione e non solo di lucrare qualche rendita di posizione elettorale per giustificare l’esistenza di un ceto politico e la sua autoconservazione.
Se sostengo che su questo primo punto ci sono arretramenti, e da qui l’urgenza di questo mio porre il problema, è perché, per dirla senza giri di parole, il PRC continua ad essere in troppe giunte (basti pensare a quelle calabresi e campane) e ha già avviato trattative per la continuazione o inaugurazione di esperienze di governo su una linea minimalista e frontista che è la stessa degli ultimi anni. La svolta a sinistra nella maggioranza dei territori non c’è. C’è un continuismo che nella attuale situazione si configura come una vera e propria svolta destra.
Come se non bastasse, giusto per suggellare a livello simbolico questa svolta a destra, a Bologna si mette in minoranza il segretario della federazione in nome del dialogo col PD. Questo, oltre ad avere risvolti grotteschi, mi porta a parlare dello stato del partito e, segnatamente, dei suoi gruppi dirigenti.
Voglio subito chiarire che per quanto riguarda Bologna io non entro nel merito delle annose diatribe e divisioni che si sono prodotte nel gruppo dirigente di quella federazione. So solo che ho incontrato Loreti ed altri compagni in una dura battaglia, isolata e quasi solitaria, per l’uscita del partito dal governo Prodi e contro la Sinistra Arcobaleno. Così posso testimoniare quanti contrasti e pressioni il gruppo dirigente di Bologna abbia subito dall’allora segretaria nazionale per la scelta di contrapposizione frontale a Cofferati. Così so, da ambienti del PD visto che non sono privo di relazioni, quanto fosse atteso da mesi e dato per certo dal PD bolognese il cambio del segretario del PRC a Bologna.
Resta il fatto, indipendentemente da tutto ciò, che la rottura della maggioranza a Bologna si è consumata sulla relazione con il PD in vista delle elezioni. Mi limito a dire che non sono d’accordo per nulla e che considero questa scelta, anche per l’importanza di Bologna dal punto di vista politico e simbolico, gravissima.
Molto più grave, se possibile, è il fatto che le dinamiche fra le diverse mozioni e diverse correnti interne e trasversali alle mozioni, soprattutto dopo la scissione, rischiano di condizionare e ipotecare la capacità del partito di sviluppare l’iniziativa politica e di imbrigliare in logiche intestine lo stesso segretario del partito, che non lo merita, dato il suo stile antileaderista di direzione.
Sebbene io pensi sia più che legittimo che ogni corrente faccia le iniziative pubbliche che vuole, che le propagandi come meglio crede, che partecipi, insomma, al dibattito ed anche alle decisioni politiche seguendo i propri percorsi, credo che sia ora di mettere la parola fine alla balcanizzazione dei gruppi dirigenti a tutti i livelli. Per due motivi. Il primo, ma lo capisce anche un bambino, è che così facendo si selezionano quadri sulla base della fedeltà alla propria corrente o, peggio ancora, al proprio leader di corrente, dando vita ad una situazione insana per cui nei territori ci sono compagne e compagni di serie A che dispongono dei santi in paradiso che li difendono a prescindere dalle loro qualità e compagne e compagni di serie B che sono tagliati fuori dalla possibilità di essere valorizzati e che vengono così indotti nella difficile, e per molti inaccettabile, scelta di doversi cercare anch’essi un santo in paradiso o di subire una emarginazione intollerabile. Il secondo è che tutto questo produce e riproduce, nei fatti, le premesse di spaccature insanabili e verticali in tutto il partito ogniqualvolta si palesi una divergenza politica importante.
Onestamente non ho una soluzione da proporre per questo problema che non sia un atto volontaristico del gruppo dirigente nazionale. Atto che dovrebbe essere dettato non da considerazioni etiche e di stile, che pure dovrebbero valere, ma soprattutto dalla consapevolezza che la continuazione di questa situazione è ineluttabilmente destinata ad impoverire il partito, e cioè la casa comune di tutti. Sempre che il PRC lo si voglia far sopravvivere davvero e non portarne le spoglie all’altare di matrimoni interessanti per il ceto politico e non certo per il buon nome e il futuro del comunismo in Italia.
L’ultimo problema di cui voglio parlarvi, e che forse è il più grave di tutti, è il grado di degenerazione al quale è giunto il nostro partito in alcune regioni e, a macchia di leopardo, in diverse realtà territoriali.
In Calabria e, anche se non completamente, in Campania e Puglia, da anni ormai la nostra internità al sistema politico vigente di cui ho parlato più sopra ha trasformato il partito in un puro strumento di un ceto interno alle istituzioni. Organismi dirigenti composti pesantemente da persone direttamente o indirettamente dipendenti, dal punto di vista del reddito, dagli “istituzionali”. Decine di circoli con numeri spropositati di iscritti che si schierano come un sol uomo in occasione del congresso passando da una mozione all’altra sulla base della convenienza dell’istituzionale di turno, ma che spesso non svolgono alcuna attività politica fra un congresso e l’altro che non sia connessa alla visibilità e al prestigio dell’istituzionale di riferimento. Patti trasversali fra istituzionali interni ed esterni al partito e lotte fra diverse fazioni con l’unico scopo di assicurarsi il controllo degli organismi preposti a prendere le decisioni circa le alleanze elettorali e soprattutto a condurre le trattative per la spartizione di decine e decine di posti ben pagati nella pletora di enti di seconda nomina. Pratica diffusa di raccomandazioni di ogni genere allo scopo di costruire pacchetti di voti da usare alle elezioni, o addirittura allo scopo di far transitare persone, alla bisogna, dalla minoranza alla maggioranza nella direzione locale del partito. Per chi ha occhi per vedere tutto ciò è ormai visibile da anni. Negare o minimizzare è pura ipocrisia.
Non racconto queste cose per proporre la “questione morale”, anche se in qualche caso andrebbe fatto. Le racconto perché sono il frutto della nostra internità al sistema politico reale. Da dentro questo sistema, soprattutto in alcune regioni meridionali, non si può “fare politica” in altro modo senza sentirsi condannati alla pura testimonianza. Ma mentre per altri partiti, a cominciare dal PD, questo è coerente con l’obiettivo di governare l’esistente e di costruire la riproduzione di un ceto politico parassitario, per noi è mortale. I lavoratori, i cittadini, possono anche apprezzare, quando va bene, la “svolta a sinistra” e il partito sociale, ma vedendo ogni giorno questa pratica sul proprio territorio trarranno una sola conclusione: che siamo un partito uguale agli altri. Anzi, peggiore, visto che predichiamo il contrario di ciò che facciamo. Senza tralasciare il fatto che centinaia di compagne (soprattutto compagne!) e compagni disgustati da questo andazzo e che, nonostante tutto, non piegano la testa sentono sempre più inutile la milizia politica nel partito.
Penso che in alcune situazioni si debba azzerare tutto. Ricostruire tutto. Penso che si possa fare a partire dalla decisione che è intollerabile la nostra presenza in giunte come quella calabrese e quella campana e che si può tranquillamente scegliere se stare nel partito ed uscire dalle giunte e dal sistema di potere connesso o viceversa, ma non continuare a controllare il partito, ridotto così ad un feudo, per albergare in giunta ed essere parte integrante di un sistema di potere vergognoso. E penso che questa cosa vada fatta subito perché mentre il mondo del centrosinistra crolla ed il sistema dei partiti è inviso alla popolazione, anche a quella parte passivizzata al punto di non conoscere altra politica se non quella degenerata, almeno il gesto politico di rompere con tutto questo può impedire che finiamo sotto le macerie.
Ecco, care compagne e cari compagni, dette queste cose non so più se faccio parte della maggioranza che guida il partito. Spero mi conosciate abbastanza per sapere che confessare questo dubbio non ha alcun intento retorico o altro scopo che quello di esprimere lealmente una grave preoccupazione per le sorti di rifondazione comunista.
Grazie per l’attenzione.
Fonte: http://ramonmantovani.wordpress.com/

Ferrero, aggressione fascista contro nostro compagno

«Denunciamo con forza la gravissima aggressione subita poche ore fa da un compagno di Rifondazione che lavora alla sede della Direzione nazionale del Prc, aggredito in maniera brutale da un gruppo di militanti di estrema destra che stazionavano a pochi passi dalla sede nazionale del Prc con la scusa di attaccare manifesti proprio sotto la nostra sede».
Così in una nota Paolo Ferrero, segretario nazionale del Prc. «Il ragazzo che lavora al Prc - prosegue - e che è stato pesantemente aggredito si trova in questo momento al Pronto soccorso dell'ospedale Policlinico di Roma e sporgerà denuncia contro ignoti. È inaccettabile che a meno di 20 metri dalla sede nazionale del Prc sia permesso a militanti dell'estrema destra di agire indisturbati, di propagandare le loro idee politiche fasciste e antisemite a pochi passi dalla sede nazionale del Prc e di aggredire a freddo chi qui pacificamente vi lavora».

Ferrero: metto a disposizione simbolo Prc per lista unitaria

Il Prc torna a proporre una lista unitaria della sinistra per le elezioni europee. «Una lista -spiega in un comunicato il segretario Paolo Ferrero- che abbia un punto fermo, inequivoco: la scelta di avere nel Gue, Gruppo unitario della sinistra, il proprio riferimento al Parlamento Europeo». Secondo Ferrero la lista unitaria dovrebbe essere «aperta», costituita cioè «non solo da dirigenti di partito ma di tanti esponenti della società civile».
L'obiettivo, aggiunge Ferrero, è «rafforzare la sinistra in Europa e rafforzare il Gue ma anche indicare una via di uscita da sinistra alla crisi del capitalismo in atto». Questa sarà la proposta che il segretario del Prc si appresta a illustrare domani all'assemblea della Sinistra Europea che si terrà a Roma, presso il centro sociale Rialto occupato. Ferrero si dice pronto a mettere «a disposizione il simbolo di Rifondazione Comunista che è, fino a prova contraria, il simbolo che dopo lo scioglimento del Pci ha caratterizzato la presenza di una sinistra degna di questo nome nel nostro Paese. Lo mettiamo a disposizione, non lo imponiamo. Lo discuteremo con tutti, con due attenzioni: sapendo che le improvvisazioni dei simboli in campagna elettorale si pagano care. In secondo luogo per noi la falce e martello, la parola comunismo, non sono un peso. Anzi -conclude Ferrero- pensiamo che, nella situazione disastrosa in cui è ridotta la sinistra in Italia, sia un risorsa».

Europee, soglia al 2% per avere i rimborsi elettorali

Primo via libera del Senato al provvedimento che fissa al 6 e 7 giugno le elezioni amministrative ed europee. Il sabato si voterà dalle 15 alle 22 e la domenica dalle 7 alle 22. Il decreto ha innovato anche dal lato delle spese elettorali. È stata infatti fissata la soglia del 2% per garantirsi i rimborsi elettorali.
Una soglia più bassa dello sbarramento elettorale, che la nuova legge stabilisce al 4%. Il Senato ha accolto un emendamento in questo senso presentato dai senatori del Pd Vincenzo Vita e Paolo Nerozzi, della componente «A sinistra», preoccupati di aprire la competizione elettorale anche alle forze minori altrimenti escluse. Altra novità riguarda la grandezza dei simboli dei partiti sulla scheda. Il decreto stabilisce la misura di 30 mm (3 centimetri) rispetto al tradizionale formato di 2 centimetri. Il relatore del provvedimento, il senatore del PdL Lucio Malan, ha accolto una richiesta venuta dai senatori dell'MpA preoccupati della scarsa visibilità dei simboli in caso di aggregazioni di più liste. Il provvedimento, che fissa in circa 1,5 milioni di euro i costi complessivi per le operazioni di voto, è stato quindi trasmesso alla Camera.

Fonte: Liberazione

Sicurezza. Pegolo (PRC): “Il decreto è una minaccia per i cittadini ed un esproprio per il Parlamento”

Comunicato di Gianluigi Pegolo
“Il decreto legge presentato stamani dal Governo in materia di sicurezza, rappresenta una grave minaccia per le cittadine e i cittadini che vivono in questo paese, oltre che un ennesimo strappo istituzionale volto ad espropriare il Parlamento del suo potere legislativo”.
Lo dichiara Gianluigi Pegolo, membro della segreteria nazionale del Prc e responsabile dell’area Democrazia e Istituzioni del Partito. “Affidare a ‘ronde’ di volontari il controllo delle nostre città, significa innanzitutto che il Governo non ritiene le forze dell’ordine italiane all’altezza del loro compito di tutori della sicurezza e, in virtù di questo, viene chiesto ai cittadini di farsi giustizia da sé. Ma non è certo con la guerra nei quartieri e con la propaganda razzista che si mettono al sicuro i nostri centri urbani”. L’esponente di Rifondazione sottolinea, inoltre, “la contraddizione espressa oggi dalla stesso Berlusconi, il quale da una parte presenta un decreto legge urgente su una materia così delicata, salvo poi affermare che le violenze sessuali in Italia sono diminuite negli ultimi anni e che l’emergenza stupri è dovuta al clamore suscitato dai recenti fatti di cronaca. Delle due, l’una. La verità è che per l’ennesima volta – conclude Pegolo – il premier e il governo delle destre cavalcano l’onda emotiva del Paese per calpestare la Costituzione e le prerogative del Parlamento”.

Le elezioni sarde, la crisi del PD e la prospettiva di Rifondazione Comunista

Intervista a Gianluigi Pegolo, segreteria nazionale PRC - Area Democrazia Istituzioni

di Yassir Goretz

Quale giudizio dai del risultato delle elezioni sarde?
Un giudizio negativo per quanto riguarda la coalizione di centro sinistra. Il risultato è molto deludente e la responsabilità, prima ancora che di Soru, è imputabile al crollo del PD, che non a caso ha determinato le dimissioni di Veltroni.
E per quanto riguarda Rifondazione?
Il risultato è incoraggiante. Raggiungiamo quasi il risultato dell’Arcobaleno alle politiche; rispetto alle precedenti regionali segniamo un arretramento, ma contenuto. Possiamo ragionevolmente sostenere che Rifondazione Comunista sta riprendendosi dopo la sconfitta delle politiche. Il trend è positivo. Il risultato, infatti, è migliore di quello abruzzese di pochi mesi fa.
Si può trarre un’indicazione per le future elezioni europee?
Dato il buon risultato del PDCI e quello di Rifondazione Comunista si può sostenere che una lista aperta che raccolga forze comuniste ed anticapitaliste costituisce una soluzione convincente in vista delle europee. Occorre, tuttavia, non banalizzare…..

In che senso?
Ho letto in questi giorni dichiarazioni superficiali, all’insegna del trionfalismo, che si poggiano su un’analisi grossolana dei dati. Mi spiego: il dato sardo, per essere colto nella sua potenzialità in vista delle europee, va calibrato, tenendo conto sia del differenziale fra dato regionale e dato medio nazionale, sia dei possibili effetti della scissione in corso in Rifondazione Comunista, sia, infine, della dispersione di voti che inevitabilmente una lista unitaria comporta. Questo significa che per essere certi del superamento del 4% non basta Rifondazione Comunista e il PDCI, ma occorre una “terza gamba”, che va ricercata, in primo luogo, nella sinistra sociale, oltre che in quella politica.

Quindi l’”unità dei comunisti” non basta?
Le forze comuniste sono fondamentali, ma non bastano, almeno per quanto riguarda il superamento della soglia di sbarramento delle europee. E in ogni caso considererei davvero azzardato illudersi su un suo facile superamento. Chi si occupa di dati elettorali e ha un po’ di dimestichezza sulla loro interpretazione lo sa bene.

Torniamo al risultato sardo. Il PD subisce una debacle. Come te la spieghi?
Se pensiamo al fatto che Soru per agevolare il PD non ha più presentato la propria lista e che il PD ha inserito nel suo simbolo il richiamo allo stesso Soru è evidente che in Sardegna tutto è stato fatto per favorire il PD e, nonostante questo, il risultato è stato disastroso. Questo cosa significa? Che il risultato trascende la regione e, dopo la vicenda analoga dell’Abruzzo, dimostra che la crisi del PD è generale. Una crisi profonda, non congiunturale.

Di fronte alla crisi del PD cosa deve fare Rifondazione?
Rifondazione ha espresso un giudizio sul PD che trova conferme ogni giorno. Questo partito è impossibilitato a svolgere il ruolo di opposizione al centro-destra perché gli interessi che punta a rappresentare e la proposta che avanza per la società italiana gli impediscono di adempiere ad una funzione alternativa. Mi pare, anzi, che con le vicende sulle europee o sul federalismo fiscale siamo entrati in una fase di ulteriore arretramento su posizioni oggettivamente funzionali alla strategia della destra.

Vi può essere una ripresa del PD?
Non è facile. Personalmente ritengo che dopo il fallimento di Veltroni l’ipotesi più probabile è che si tenti una ricollocazione più conflittuale col centro destra cercando di assimilare la sinistra moderata, senza rinunciare a flirtare con l’UDC. La prospettiva è stata delineata da D’Alema e punta ad un nuovo centro-sinistra, ma con una parvenza di sinistra, sempre più integrata nel PD. E’ l’approdo a cui è destinato il gruppo di Vendola e la nuova formazione della sinistra in gestazione. Un’esito davvero avvilente per chi, fino a qualche mese fa, preannunciava la nascita di una formazione di sinistra capace di competere col PD. In ogni caso, e’ tutto da dimostrare che una parziale modifica di collocazione del PD lo faccia uscire dalla crisi. Sono invece piuttosto scettico sulla possibilità che quel partito si spacchi.

Ma la crisi del PD cosa comporta per Rifondazione?
Io non credo che, come alcuni sostengono anche a sinistra, la crisi del PD comporti automaticamente la crescita di forze antagoniste e comuniste. Se fosse così potremmo stare tranquilli, ma i risultati elettorali ci dicono che il trasferimento di consensi non è automatico e, infatti, Rifondazione Comunista anche nelle elezioni sarde non intercetta automaticamente i consensi perduti dal PD, che si distribuiscono in molte direzioni, ma probabilmente ancora di più verso il non voto o la protesta delle schede nulle

Che fare allora?
Il problema è che la sconfitta subita dall’Arcobaleno alle politiche ha segnato un punto di svolta. Una prospettiva comunista ha oggi -io credo- una maggiore credibilità di prima, non fosse altro per il fatto che - come già si vede- i tentativi di scorciatoie arcobaleniste non portano da nessuna parte, ma questa prospettiva richiede la riconquista di credibilità nella proposta, nell’iniziativa sociale e nella coerenza dei comportamenti. Non si tratta di un processo facile. Occorre partire dalla battaglia di opposizione, riuscire a connettersi ai movimenti di lotta, e soprattutto interpretare i bisogni della gente, che oggi significa in primo luogo saper dare risposte credibili alla crisi.

Qui si apre la questione dei governi locali. Che fare con le giunte dover Rifondazione è col PD?
Non esistono automatismi. Il fatto è che nei governi locali gli stessi elettori di Rifondazione Comunista misurano il nostro partito sulla base della connessione che esiste, o che prevedono possa esservi, fra loro bisogni ed aspirazioni e contenuti concreti dell’azione amministrativa. Il giudizio sul PD, per questi stessi elettori, discende dall’operato dei suoi amministratori: se un comune lavora bene, se vi è attenzione ai problemi sociali, se si difendono le funzioni pubbliche, se vi è impegno sul fronte dei diritti, se vi è cultura democratica e non vi sono indulgenze nei confronti di discriminazioni e razzismi il nostro elettorato è disposto a concedere fiducia. In questi casi le alleanze non solo sono possibili ma sono anche consigliabili. In caso contrario meglio stare all’opposizione.

Ma non è sempre più difficile fare buoni accordi?
Certo lo è più di prima, per l’involuzione moderata del PD, ma questo non fa venir meno il principio fondamentale: le alleanze si fanno in primo luogo sui contenuti, non su una valutazione astratta sulla singola forza politica. Voglio fare un esempio. Il PD ha recentemente appoggiato l’introduzione di uno sbarramento per le elezioni del parlamento europeo del 4% per impedire a Rifondazione Comunista e alle altre forze di sinistra di ottenere una rappresentanza al parlamento europeo. Si è trattato di una scelta che ha prodotto nel nostro elettorato una giusta reazione di sdegno. Eppure, anche di fronte ad un comportamento così odioso, se tu in un comune ti appelli a questo fatto per giustificare il mancato accordo col PD nessuno ti capisce, perché giustamente l’elettore ti chiede, in primo luogo, di garantire una politica amministrativa adeguata e su questo ti giudica.

Ma non vi è il rischio che ponendo al centro i contenuti si finisca col favorire accordi al ribasso?
Questo ovviamente non dipende dal fatto che la bussola sia incentrata sui contenuti, quanto dal fatto che se si subordinano i contenuti alla volontà di fare accordi a tutti i costi si finisce col fare la caricatura del confronto sui contenuti.

E la rottura prodottasi a Bologna?
La vicenda di Bologna in realtà è il risultato dell’inadeguatezza di una parte del gruppo dirigente del partito locale. Il paradosso è che a Bologna il segretario della federazione si dimette ed esce dal partito, non perché si fa un brutto accordo col PD (nel qual caso sarebbe stato comprensibile), ma perché si avvia il confronto col PD, e non solo col PD, sul programma. Non solo, questo avviene dopo che per mesi lo stesso segretario accetta il confronto. E il peggio è che lo stesso modifica la propria posizione senza che sul piano locale siano emersi fatti nuovi e significativi che giustifichino tale cambiamento. E questo mentre nel federale si decide che, in ogni caso, dopo la verifica programmatica la decisione ultima spetterà all’intero corpo del partito attraverso un’ampia consultazione.

Ma a tuo parere il confronto andava accettato o no?
Io credo che quando l’organismo dirigente di un partito decide di avviare un confronto con altre forze politiche, è giusto essere conseguenti ed andare a tale confronto. Si tratta di un elementare principio di democrazia, quando poi si giungerà alla conclusione del percorso occorrerà pronunciarsi di nuovo. Personalmente sono molto critico nei confronti di gruppi dirigenti che cambiano in continuazione opinione, a meno che non vi siano motivi validi. Nel merito, la decisione è stata assunta del tutto autonomamente dai livelli locali sulla base di una valutazione, e cioè che l’uscita di scena di Cofferati creava una condizione nuova, che permetteva di andare a verificare se era possibile introdurre elementi di discontinuità.
Non mi pare vi sia in ciò nulla di scandaloso, e in ogni caso non pregiudica l’autonomia politica di Rifondazione.

Ma questa prassi del confronto sui contenuti non rischia di compromettere Rifondazione, data la caduta di credibilità del PD?
Se dovessi basarmi sulle ultime consultazioni in Abruzzo e in Sardegna direi che non è così. In quei casi Rifondazione Comunista ha accettato il confronto e, per esempio, nel caso dell’Abruzzo fino all’ultimo vi è stata la possibilità di una rottura, perché i nostri compagni sono stati molto determinati nel porre alcuni vincoli. Alla fine questa linea è stata premiata e i risultati elettorali lo stanno a dimostrare. E questo è avvenuto – lo sottolineo – mentre il PD crollava.
Fonte: sinistracomunista.it

giovedì 19 febbraio 2009

Innanzi tutto, l’opposizione!

di Daniele Maffione*

La CGIL non starà a guardare. E’ questo il messaggio che arriva dalla storica Piazza San Giovanni a Roma, punto d’arrivo del corteo nazionale dello sciopero del 13 febbraio, in cui la FIOM e la Funzione Pubblica, da sole, hanno portato in piazza oltre settecentomila lavoratori. Un’alleanza inedita tra due categorie che, all’interno della dialettica sindacale, in passato si erano trovate in disaccordo circa la concertazione con i governi e la controparte padronale.

Eppure, si è capito: non ci sono alternative. La crisi si combatte con l’unità dei lavoratori, che la CISL, la UIL e l’Ugl attentano, arrogandosi una rappresentanza ed una legittimità che non gli è data dai lavoratori, bensì dal Governo Berlusconi, che porta avanti una strategia chiara: respingere la crisi capitalista difendendo i profitti ed attaccando i diritti del lavoro, come il contratto nazionale ed il potere d’acquisto dei salari, e quelli democratici, in cui la Costituzione antifascista diviene l’obiettivo dell’offensiva clerico-fascista delle destre.
Di fronte al rischio, ogni giorno più concreto, d’involuzione reazionaria del nostro Paese, dove il razzismo, la guerra tra i poveri e la disuguaglianza divengono la panacea di una crisi economica del capitale, non ci sono scorciatoie: bisogna costruire opposizione! La spinta alla mobilitazione, data dalla FIOM e dalla Funzione Pubblica, e cominciata ad ottobre dal mondo dell’Istruzione pubblica, segna solo l’inizio di questa battaglia, che andrà crescendo nel corso dei prossimi mesi: saranno convocate assemblee nelle fabbriche a rischio di chiusura ed in tutti i luoghi di lavoro. Obiettivo: un referendum, che in marzo chiamerà tutti i lavoratori ad esprimersi contro il violento attacco, voluto dalla Confindustria, ai sacrosanti diritti garantiti dal Contratto nazionale.
Se dovesse passare il modello contrattuale varato da Bonanni, Angeletti ed il Governo Berlusconi, non soltanto il contratto nazionale diverrebbe un contenitore vuoto, privo di un valore reale nella contrattazione tra lavoratori e padronato, ma, con l’introduzione del federalismo fiscale, porrebbe le basi per l’estinzione formale e sostanziale dell’uguaglianza dei lavoratori e dei cittadini, che verrebbero separati tra “ricchi” e “poveri”, “settentrionali” e “meridionali”, “nativi” e “migranti”.
Da questi presupposti, il segretario generale della FIOM, Gianni Rinaldini, replica anche alle cariche della Polizia, volute dal Governo, contro gli operai esasperati a Pomigliano d’Arco e Milano: se si alza la tensione, i lavoratori non staranno a guardare e si ergeranno a difesa del proprio posto di lavoro e della Costituzione, “Conquista”- dice Rinaldini - “di una grande stagione di protagonismo e lotta dei lavoratori italiani, com’è stata la Resistenza antifascista”.
In un quadro in cui il conflitto di classe torna a proporsi come fulcro della storia, in barba alle teorie nuoviste di esponenti come Vendola e Veltroni, si apre una stagione d’opposizione, che la stessa Rifondazione comunista, principale forza della sinistra politica rimasta fuori dalle stanze dei bottoni parlamentari, deve saper interpretare.
Non si può, infatti, lasciare ad esponenti come Di Pietro la piazza, anche perché una tale opposizione, troppo appiattita sul proprio leader e sui temi della giustizia, è poco conseguente di fronte ai problemi dei lavoratori e della democrazia, come dimostrano le dichiarazioni sullo smembramento di Alitalia ed il diniego dell’istituzione di una commissione d’inchiesta sulle violenze della Polizia al G8 di Genova.
Rifondazione comunista deve tornare a parlare alla testa, al cuore e, soprattutto, alla pancia dei lavoratori, che hanno bisogno di un forte sindacato, che si batta per ricostruire l’unità della classe, ed un partito di conflitto, che ne ricostruisca la coscienza politica.
Quel partito politico non è il Partito Democratico, che con le elezioni sarde, è arrivato al capolinea: o cambierà linea, sbarrando il passo alle destre, oppure tornerà spaccato a casa, consegnando il Paese ad un nuovo fascismo, politico, economico e sociale.
La strada per battere le destre, e superare la stagione di un centrosinistra fallimentare, vanno gettate da qui: lotta, politica e sociale. Rifondazione comunista può rilanciare il proprio progetto politico, sviluppando quell’originalità rivoluzionaria che sta alla base della propria costituzione, contribuendo al riemergere di una sinistra, uscita a pezzi dalle scorse elezioni politiche, ma con ancora tanta voglia di battersi per un futuro migliore. E la sinistra più credibile in questo Paese non è creata da soluzioni a tavolino, con fusioni a freddo tra segreterie di partito, ma dai lavoratori italiani, che hanno compreso l’importanza della posta in gioco: il posto di lavoro ed i valori antifascisti, che ispirano la nostra Repubblica.
Fonte: sinistracomunista.it

* Coordinamento nazionale Giovani Comunisti - Area Sinistra Comunista

Intervento al Comitato politico federale di Napoli del 17 febbraio. (1)

di Eugenio Giordano*
Siamo di fronte ad un regime reazionario in costruzione e non tutti, credo, ne hanno l’esatta percezione.
Siamo di fronte al tentativo, da parte delle destre, di portare la spallata antidemocratica finale. Il disegno di Berlusconi è quello di portare al potere non una classe – la borghesia – ma la sua ala più liberista, mercantile, razzista, reazionaria, antioperaia e anticomunista. Questo scenario si somma ad una inquietante “crisi del capitale”, che “promette” un milione di nuovi disoccupati. Tutto ciò s’inserisce nella crisi profonda della sinistra, delle forze Comuniste, del movimento sindacale. Una crisi che trova le sue basi materiali – o il suo triste epilogo- anche nel fallimento del governo Prodi e nella subordinazione di quelle forze al governo di centrodestra. Un fallimento, quello dell’esperienza Prodi, che i “vendoliani” scissionisti rimuovono, riproponendo di fatto, come se nulla fosse accaduto, sia il superamento del Partito Comunista, che un nuovo centro sinistra con il PD quale colonna portante.
Il PD è ormai collocato stabilmente nell’area liberista e ha problemi seri a schierarsi anche con la CGIL, n’è la testimonianza evidente lo sciopero de 13 febbraio: quella mobilitazione ha costituito un momento fondamentale della lotta dei lavoratori italiani contro le politiche del governo Berlusconi.
Le richieste avanzate con questo sciopero generale costituiscono un riferimento importante per la costruzione di una piattaforma contro la crisi: dal blocco dei licenziamenti, all’estensione degli ammortizzatori sociali, dalla lotta alla precarietà alla difesa del sistema del welfare, dall’intervento a sostegno del reddito, all’inasprimento fiscale per rendite ed alti redditi, dalla valorizzazione delle produzioni ecompatibili, allo sviluppo delle aree più deboli del Paese.
A questo punto è la sinistra politica che deve fare la propria parte. Lavorare per l’unificazione della lotta, per la sua qualificazione, sostenendo sindacati e forze sociali in lotta. Questo è il primo compito di una sinistra vera. In questa direzione bisogna lavorare anche qui a Napoli e in Campania. Ripartire da una discussione politica vera, impegnarsi per mettere in campo strumenti e potenzialità, per un reale cambio di direzione. Vi dico molto sinceramente che la mia preoccupazione è quella di cadere dalla padella alla brace. Ho sempre sostenuto che le responsabilità non sono mai individuali, ma mi rendo conto che è forte l’orientamento di chi vuole continuare sulla vecchia strada. Ho ascoltato con molta attenzione alcuni interventi, soprattutto quelli dei Compagni più autorevoli di questa Federazione, ma mi sembra di assistere solo ad una contrapposizione di schieramenti. Il barile è vuoto anche qui a Napoli, ma si continua a raschiare il fondo. Il nostro Partito ha operato, a Chianciano, una svolta, una svolta che può e deve camminare sulle nostre gambe. Ci sono precise responsabilità di chi ha messo in seria difficoltà quel nuovo, e per nulla scontato, progetto. Quella maggioranza deve vivere non per escludere, ma per dare inizio ad una vera discontinuità. Bisogna partire da quella condizione ed avere la volontà, innanzi tutto, e la capacità di costruire l’unità interna. Tutto questo deve significare mettere in campo una piattaforma politica che sa rispondere alle domande essenziali che i Compagni e i tanti che guardano a noi aspettano. Quale progetto politico per Napoli e la Campania, dopo l’esperienza delle giunte di centro-sinistra? Si vuole o meno l’alternatività al PD? Quindi, quale rapporto con questa forza politica e con le altre del centro-sinistra? Quale Partito mettiamo in campo e cosa proponiamo ai cittadini per le prossime provinciali? E, soprattutto, abbiamo definitivamente abbandonato lo scellerato progetto “vendoliano” sulle primarie? Siamo d'accordo a seguire le indicazioni del Partito nazionale, anche qui a Napoli, con la presentazione di una lista con il nostro simbolo e la nostra disponibilità ad aprirci a quelle forze anticapitaliste, Comuniste, sindacali, di movimento, che realmente vogliono una svolta? Cosa diciamo, finalmente, sulla questione morale? Cosa diciamo sulla necessità di riscrivere regole interne di democrazia ed etica morale, ad iniziare dal fatto che il futuro Segretario, ad esempio, non può e non deve essere “stipendiato” dalle istituzioni? Quale decisione sui consigli di amministrazione, dove ci sono ancora nostri referenti? Ripartiamo con un tesseramento serio e qualificato? Ecco sono queste le domande a cui si deve rispondere, è su questo che si costruiscono le maggioranze politiche, è da qui che bisogna partire se si vuole essere onesti e credibili, dentro e fuori il Partito. Di tutto questo non sento parlare, serpeggiano soltanto, in modo più o meno evidente, strategie, tatticismi, accordi e assistiamo, in modo opportunistico, a chi si candida al ruolo centrista, di democristiana memoria, con forti responsabilità per aver rotto il patto di Chianciano. Oggi si vogliono delle accelerazioni, si vuole un gruppo dirigente a tutti i costi, in un momento in cui non sappiamo ancora chi resta, chi va via o chi resta per assolvere ad un ultimo atto. Tutto questo sarebbe deleterio per un Partito che qui a Napoli ed in Campania ha dato e, purtroppo continua a dare, uno spettacolo negativo. Riflettiamo, quindi, e iniziamo immediatamente una larga discussione, coinvolgendo tutto il corpo del Partito, mettiamo in campo risorse vere, potenzialità serie, progetti credibili, se veramente vogliamo una reale ricostruzione. Un gruppo dirigente non può rappresentare solo una parte, specie in un momento così grave per il Partito e per il paese. Se così non fosse, avrei grossi dubbi sul futuro del Partito, quel Partito che tanti hanno sperato potesse veramente svoltare a sinistra e che invece sostituirebbe semplicemente un gruppo con un altro e quindi si cadrebbe veramente dalla padella alla brace.
*Membro del Comitato politico federale di Napoli
Membro dell'Esecutivo nazionale di sinistracomunista*

Intervento al Comitato politico federale di Napoli del 17 febbraio. (2)

di Laura Petrone*
Care Compagne e cari Compagni,
ho avuto modo di ascoltare molti interventi e, mi pare, che l’unico elemento davvero trasversale, riguardo alla fase post-scissione, sia proprio la confusione. La vecchia dirigenza d’impronta bertinottiana però ci ha abituati all’utilizzo sistematico della confusione quale strumento per ottenere scopi pseudo-politici e di potere, evitando di misurarsi con l’unica cosa che conta in un Partito: la politica. Direi quindi che non è proprio il caso di sottovalutare questo elemento, né di rassegnarci passivamente a questa eredità scomoda: è giunta l’ora di fare chiarezza! Quando parlo di chiarezza intendo una chiarezza politica, ovviamente… Siamo chiamati a dotarci di nuovi gruppi dirigenti e avvertiamo tutti la necessità di rendere la Federazione di Napoli agibile, non soltanto come luogo fisico, ma anche e soprattutto come luogo di elaborazione politica, di confronto, come luogo deputato alla fase decisionale e organizzativa. La crisi economica e la situazione in cui versano Napoli e il Partito tutto ci mettono di fronte a tale responsabilità, perché non cogliere questa occasione? Abbiamo la possibilità di dar vita ad un nuovo corso della Rifondazione comunista anche a Napoli e in Campania, di far vivere la ‘svolta a sinistra’ anche in questa sciagurata terra, allora facciamolo da comunisti, e cioè a partire dalla partecipazione e dalla politica. Facciamo rinascere il Partito dai territori, coinvolgiamo i Circoli, a partire dai Segretari: cominciamo col convocare anche quelli che non sono rappresentati in questo CPF, lasciamo che le informazioni circolino e facciamo vivere il dibattito interno, misurandolo con la realtà nei singoli territori, altrimenti resta asfittico! In questo modo, confrontiamoci sulla proposta politica che abbiamo da dare a questa città e a questa provincia. Lasciamo che sia quello il discrimine che determini i rapporti di forza al nostro interno, non le contrapposizioni politiciste! Elaboriamo una piattaforma chiara che diventi un messaggio forte sul territorio, almeno su questi punti: la questione morale, la centralità del Partito (perché è necessaria ed urgente una inversione di tendenza rispetto al rapporto attuale tra livello politico e livello istituzionale, così come occorre un salto di qualità organizzativo) e, ultimo punto, occorre ridefinire il nostro rapporto col PD o col Centro-sinistra. Partire dalla politica, quindi, è la via obbligata per ricostruire il Partito e ridargli un po’ di credibilità, ma resta il problema di come garantirci il confronto democratico. La natura della scissione operata dai Compagni di MpS non ci consegna una situazione gestibile con gli strumenti che abbiamo… lo dico senza giri di parole: non ci sono le garanzie democratiche per andare al voto di checchèssia in assenza delle opportune verifiche, la ragione è semplice: il numero dei votanti su quello effettivo degli aventi diritto al voto è il dato essenziale di qualsiasi esercizio di voto democratico, e noi non siamo in grado di stabilirlo a stasera, né domani, né forse prima del prossimo tesseramento! Quest’ultimo potrà essere il primo grande strumento di chiarezza, ed è anche la prima occasione da non perdere per ricostruire il Partito, ma il problema resta: noi non siamo in grado di gestire il Tesseramento 2009 senza organismi dirigenti e senza livello organizzativo. In base a questo ragionamento, e chiudo, intravedo un’unica via d’uscita: quella d’investire gli organismi dirigenti nazionali per gestire questa prima fase di transizione dal post-scissione alla chiusura del Tesseramento, finché non avremo tutti gli elementi di chiarezza che ci permetteranno di dotarci autonomamente dei gruppi dirigenti a partire da un confronto politico democratico. Grazie.
*Membro del Comitato politico nazionale del PRC

Tfr, teatrino governo-Confindustria. Ma di misure anticrisi neanche l'ombra

di Anna Maria Bruni

La presidente di Confindustria respinge le accuse di pessimismo del ministro Scajola, mentre Cisl e Ugl intervengono per accogliere la proposta lanciata ieri da Marcegaglia di trattenere il Tfr nelle aziende. Cremaschi: “la Confindustria ignora i lavoratori”
ROMA - Continua il botta e risposta tra il ministro Scajola e la presidente di Confindustria Marcegaglia. Alle accuse di pessimismo lanciate ieri dal ministro dopo la diffusione dei dati del Pil per l'anno in corso, che il Centro studi di Confindustria indica in una contrazione del 2,5 per cento, Emma Marcegaglia non ci sta.

"I corvi diffondono pessimismo" aveva detto Scajola, dicendosi perplesso per “gli scenari che la Confindustria diffonde sempre più negativi di quelli dell'Ocse e del Fmi”. “Non mi pare di non essere un corvo - risponde oggi la leader di Confindustria - io sono tra le poche voci che dice, auspica e spera che alla fine del 2009 usciremo da questa situazione”.Mentre il ministro si attesta sui dati internazionali: "secondo le recenti stime del Fondo monetario, la ripresa per l'Italia arriverà nel 2010”. Dunque previsioni meno ottimistiche della numero uno di viale dell'Astronomia, salvo poi correggere il tiro. “Nessuno può dire oggi se queste previsioni saranno confermate”, dice, ma non è il caso di “cedere alla rassegnazione”, anche perché lo stesso Fondo ha sottolineato che "nel nostro Paese la crisi si è manifestata con caratteri meno accentuati rispetto ad altri Paesi industrializzati" e, a sentire il ministro, “il governo sta facendo il possibile, nel rispetto dei vincoli di bilancio, per salvaguardare la struttura produttiva del Paese", mentre la Marcegaglia sostiene che il “governo può fare di più, come stanno facendo gli altri paesi europei”. Il passaggio di palla, per quanto inelegante da parte del ministro, appare come un diversivo per evitare la questione sostanziale, ovvero fondi ben più consistenti delle misure messe in campo finora per affrontare la crisi. Questione che la Marcegaglia si limita a sollevare in coda ad una risposta difensiva (“non mi pare di essere un corvo”), dopo aver già rilanciato la proposta di lasciare il Tfr alle imprese. Cioè di finanziarle con i soldi dei lavoratori. “Si potrebbe arrivare alla decisione che per un anno i flussi di Tfr non vadano all'Inps, ma vengano tenuti all'interno delle imprese”, aveva detto ieri la numero uno di Confindustria. E mentre Scajola rispondeva sul “pessimismo delle previsioni” e non nel merito dei fondi, ci pensa oggi il sindacato ad intervenire. Il segretario generale Cisl Bonanni, accogliendo positivamente l'idea, si è immediatamente lanciato in una nuova proposta di accordo: “Non ho nulla contro l'utilizzo dei soldi che per non scelta vanno all'Inps”, spiega il segretario. “Su questa cosa comunque bisogna fare un accordo. Propongo a Marcegaglia uno scambio, noi non siamo contrari a sostenere le imprese con questo utilizzo del Tfr destinato all'Inps ma la Confindustria si unisce a noi per chiedere una tassazione minore dei fondi così come aveva promesso Prodi”. Anche la segretaria generale dell'Ugl Renata Polverina si è detta favorevole: “Tenuto conto della grave crisi in atto, è condivisibile l'idea di una sospensione del flusso di Tfr inoptato all'Inps per tenerlo nelle aziende, anche se, ha sottolineato “non risolverebbe il problema per le aziende con meno di 50 dipendenti”. “Detto questo, più in generale, - ha ricordato alla fine - occorre che il governo intervenga per fare in modo che le banche eroghino il credito alle imprese in difficoltà”.La Cgil, per bocca di Morena Piccinini, si dice possibilista: “se la Marcegaglia si riferisce a quella parte di Tfr non utilizzato dai lavoratori per la previdenza complementare è legittimo che le imprese chiedano di destinare quelle risorse al sostegno del sistema produttivo”, però, continua “è controproducente ipotizzare il ritorno del Tfr in azienda, perché questo determinerebbe ulteriori complicazioni tra azienda, Inps e lavoratori”. Ma “sarebbe opportuno - conclude - che il sistema delle imprese fosse disponibile ad ampliare la possibilità di anticipazione del Tfr ai lavoratori, proprio per far fronte a questa situazione di crisi”. Giorgio Cremaschi, segretario nazionale Fiom e leader della Rete28aprile, sottolinea che “sarebbe giusto che la quota di Tfr accantonata per quest'anno - dice - venga messa a disposizione volontaria per le lavoratrici e i lavoratori”, “una 14esima straordinaria, per far fronte alle emergenze”, ma che i lavoratori si pagherebbero con i loro fondi, spostandoli dal sostegno alla pensione al sostegno della crisi. Una provocazione, insomma, perché è evidente, conclude Cremaschi che “Ancora una volta gli industriali pensano che il Tfr sia a disposizione delle aziende, e dimenticano che è salario accantonato dai lavoratori. Si dimostra così che, nonostante la crisi, la Confindustria ignora i lavoratori e la loro condizione salariale.” Corvi sì, ma sulla pelle dei lavoratori.
Fonte: dazebao.org