martedì 10 febbraio 2009

Costituzione “filosovietica”: il vero disegno del Cavaliere

di Fulvio Lo Cicero

I ripetuti attacchi del premier alla nostra Costituzione mostrano la sua volontà plebiscitaria e “sudamericana”. Una migliore conoscenza storica consentirebbe a Berlusconi di comprendere i reali contenuti e l’ispirazione della nostra legge fondamentale.

ROMA – Come sempre gli capita dopo improvvide affermazioni, forse stimolato e corretto dal fido Gianni Letta, il premier ha ieri smentito se stesso ed ha affermato di rispettare la Costituzione repubblicana, “sulla quale ho giurato”. Eppure le sue affermazioni televisive (difficilmente smentibili) avevano denunciato un testo normativo vecchio e soprattutto “filosovietico” che, a suo dire, andrebbe largamente modificato, perché frutto di una temperie oramai vetusta e di un mondo rigidamente diviso in due blocchi. Ma è veramente così?

L’Assemblea costituente
Quando, per la prima volta con il suffragio universale, quindi aperto al voto anche delle donne, gli italiani elessero i membri dell’Assemblea costituente, i partiti che vi partecipavano erano essenzialmente espressione del Comitato di liberazione nazionale, che aveva proclamato l’insurrezione del 25 aprile 1945. In esso risiedeva un ampio spettro di posizioni politiche, che andavano dai liberali di Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando, ai monarchici, al partito cattolico sturziano e degasperiano, agli azionisti di La Malfa, per finire con i comunisti di Togliatti e i socialisti di Nenni. In sostanza, però, le posizioni ideologiche prevalenti si concentrarono fra cattolici e social-comunisti. Ne è una dimostrazione il fatto che le tre sotto-commissioni in cui si suddivise la Commissione dei 75, incaricata di redigere lo schema generale, furono presiedute da Umberto Tupini (Democrazia cristiana), Umberto Terracini (Partito comunista), Gustavo Ghiaini (Partito socialista).

Il patto costituzionale
Ciò che emerse con chiarezza fu il fatto che le varie impostazioni politiche ed ideologiche risultavano unite, come scrisse il Presidente della Commissione dei 75 Meuccio Ruini, già radicale e fondatore del partito “Democrazia e Lavoro”, dal collante antifascista: “Vi è un punto che non si deve mai perdere di vista in nessun momento, in nessun articolo della Costituzione: il pericolo di aprire l’adito a regimi autoritari e antidemocratici”. Il patto costituzionale dal quale nacque la nostra legge fondamentale consistette, dunque, nella volontà di tutti i partiti di superare gli schieramenti ideologici – così come era accaduto nella lotta di liberazione dal nazi-fascismo – e dotare il Paese di un moderno apparato di norme, in grado di “costituire” una pacifica e democratica convivenza sociale.

Il compromesso costituzionale
Naturalmente ogni partito non tralasciò il tentativo di orientare in un certo modo le norme della nuova Costituzione. Ma l’obiettivo di una Carta tollerante e aperta al nuovo fu raggiunto grazie ad uno dei pochi compromessi politici di cui l’Italia possa essere giustamente orgogliosa. Dopo l’erezione della “Cortina di ferro” successiva al famoso discorso di Churchill a Fulton (Missouri, Usa) il 15 marzo 1946, con la quale si rompeva definitivamente l’alleanza fra Urss e blocco occidentale, inaugurando in questo modo il lungo periodo della “guerra fredda” e soprattutto dopo gli accordi di Yalta (Ucraina, 4-11 febbraio 1945), lo stesso Togliatti, già fautore della “svolta di Salerno” del 1944, a seguito della quale aveva abbandonato la pregiudiziale istituzionale monarchia-repubblica, aveva escluso dal suo programma immediato l’ipotetica e d’altronde difficile inclusione dell’Italia fra i Paesi dove una più o meno artefatta “rivoluzione” socialista avrebbe preso il sopravvento, associando il Paese al blocco orientale comandato dal colosso stalinista. Né era interesse dei social-comunisti predisporre una Carta simile alla terza Costituzione sovietica (5 dicembre 1936), dove pure non erano pochi gli spunti “sociali” di cui tenere conto, quali, fra gli altri, il principio di uguaglianza e il diritto al lavoro.

Il disegno del nuovo modello di società democratica
Quanto la nuova Carta rigettasse i principi del modello socialista sovietico lo si può ricavare agevolmente dalla lettura di pochi articoli, soprattutto quelli della cosiddetta “Costituzione economica” (artt. 41-47), dove maggiore appare lo “spirito del compromesso”, una sorta di sintesi culturale e ideologica fra solidarismo cattolico (ma forse sarebbe meglio dire “cristiano”) e progressismo marxista. L’apertura dell’articolo 41, ad esempio, dispone espressamente che “l’iniziativa economica privata è libera” ma essa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. In altri termini, i padri costituenti rifiutavano l’idea degli “animal spirits” di keynesiana memoria, il liberismo sfrenato del mercato e il rozzo individualismo economicistico, che ha provocato i danni che stiamo attualmente vivendo con la crisi dei mercati finanziari e del sistema economico capitalistico in generale. Il modello è appunto quello di un capitalismo regolato, dove l’iniziativa economica privata deve comunque rispettare le esigenze della collettitività.
Allo stesso modo, nel successivo articolo 42, dove si ribadisce la coesistenza fra proprietà privata e pubblica, la Costituzione fornisce a questo istituto una significato che deve tenere conto sia della sua “funzione sociale” (orientamento cattolico), sia la sua accessibilità ad un più vasto numero di persone (orientamento progressista). Le due concezioni si incontravano sulla strada dell’avanzamento sociale, soprattutto con riferimento alle fasce deboli della popolazione.
Si può anche accennare all’approvazione dell’art. 7 e alla “costituzionalizzazione” dei Patti lateranensi del 1929, con il quale si perpetuava la nozione di “religione di Stato”, poi abolita dalla revisione del Concordato del 1984, accettata, anche se con una certa opposizione interna, da Togliatti proprio in nome di quell’unitarietà di intenti cui si è fatto cenno.
Se poi consideriamo altre norme, come quella di cui all’art. 49, dove si stabilisce l’adesione libera e volontaria ai partiti, “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, che è esattamente il contrario della teoria sovietico-leninista circa la coincidenza fra partito unico e apparato statale e tutta la seconda parte della Carta, nella quale si articola il delicato meccanismo dei tre poteri dello Stato (Legislativo, Esecutivo, Giudiziario), seguendo la tradizionale dottrina di Montesquieu, si comprende come parlare di “filosovietismo” è indice di una profonda mistificazione delle norme costituzionali.
Ed anche la successiva smentita – per quello che può valore oltre la cerchia dei propri consiglieri – non riesce a celare il tentativo sempre più pressante di modificare gli attuali assetti istituzionali, per far luogo ad un nuovo modello “putiniano”, concentrazionario e per molti versi radicale di regime politico, dove all’autorità leaderistica fa capo sia l’impulso, sia l’approvazione, sia la promulgazione delle leggi, oltre che degli atti di governo, in una indissolubile continuità che è esattamente il contrario della democrazia dei poteri frammentati e del controllo distribuito fra i vari soggetti responsabili.Un disegno che si fa ogni giorno più chiaro, soprattutto in riferimento alle limitazioni che si vogliono frapporre all’autonomia del potere giurisdizionale, e che era stato denunciato già da molti anni da autorevoli esponenti di movimenti e associazioni progressiste e da liberi giornalisti come Marco Travaglio, spesso sbeffeggiati dai teorici del riformismo accomodante e dai loro giornali, che ora sembrano risvegliarsi da un torpore decennale.

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