mercoledì 4 febbraio 2009

Pomigliano. La vittoria del padronato passa per lo smantellamento di una cultura operaia e comunista.

di Eugenio Giordano
La prima cosa che risulta evidente oggi, per chi vive in quello che fu una volta un glorioso feudo operaio, è che ogni realtà industriale, ancora esistente a Pomigliano, è diventata una cattedrale nel deserto. La sensazione, che poi è triste verità, ormai da anni, è che ognuna di essa “vive” la sua condizione, la sua drammaticità, in modo isolato, chiuso nelle mura della propria fabbrica. È da qui che, a mio parere, bisogna partire per provare a fare un’analisi perché parliamo di una realtà che procede in modo serrato verso il collasso definitivo, se non s’interviene. La distruzione di interi presidi industriali, come quello di Pomigliano, che comprende ancora fabbriche storiche quali la Fiat, l’Alenia, l’Alfa Avio e tante piccole realtà che hanno un tempo rappresentato un tessuto industriale forte e competitivo, non diverse da altre zone del paese, inizia con un processo lento, che viene da lontano, e che ha visto un’azione quasi scientifica del padronato. Un progetto preciso, ispirato al profitto e alla diminuzione del costo del lavoro, portato avanti attraverso il progressivo indebolimento, e poi annientamento, delle coscienze, della pratica, della memoria, della consapevolezza, quindi di quella cultura secondo cui ad una classe sociale se ne contrappone un’altra capace, attraverso il conflitto, di conquistare e migliorare le proprie condizioni. Il disegno si compone, dunque, di due elementi che s’intrecciano tra loro: la dipendenza dal padronato per poter sopravvivere, ma soprattutto la subalternità culturale, capace di distruggere il senso critico dell’individuo. È andata distrutta la cultura della solidarietà, innanzi tutto, quella consapevolezza, cioè, prima sociale e poi politica, che il problema di uno è di tutti. Si può, sicuramente, obiettare che sono cose d’altri tempi, ma sfido chiunque a dimostrare che la realtà sociale d’oggi sia migliorata, che i lavoratori abbiano raggiunto condizioni di vita accettabili, che ognuno riceva il giusto compenso per il proprio lavoro, che esista una società che permette a tutti di vivere dignitosamente e, soprattutto, che ci sia stato uno sviluppo culturale adeguato e proiettato verso la collettività.
Ho sempre pensato che l’introduzione della flessibilità e di tutti questi contratti di lavoro precario, avessero come primo obiettivo, non solo l’adeguamento ad un sistema di mercato, ma soprattutto l’introduzione di quegli elementi culturali che hanno prodotto, nelle nostre realtà industriali, la contrapposizione tra generazioni. Il successo del padronato è prima di tutto culturale. Quando oggi parli ad un giovane di lotta, di rivendicazione, di diritti, di un percorso che porta ad un miglioramento qualitativo delle condizioni del lavoro, oppure della fabbrica che si deve aprire al territorio, in uno scambio per un arricchimento culturale, ecc…ecc… le uniche risposte sono quelle di paura: quella di perdere il posto di lavoro. Quindi, la precarietà del lavoro si trasforma in ricatto, che precarizza la vita sociale e culturale delle persone. Quello che sta accadendo alla Fiat è emblematico. A Pomigliano la Fiat ha deciso di ridurre, se tutto va bene, la sua produzione e quelli che hanno pagato le prime conseguenze sono proprio quei lavoratori privi di qualsiasi tutela, quelli che, se pur ottengono nell’immediato qualche rassicurazione, è sempre un lenire, non curare. Ecco farsi avanti la tentazione di pensare al proprio problema e ritenersi salvo, perché è toccato ad un altro. È ovvio che in tutto questo non deve essere considerata secondaria la differenziazione sociale, culturale e strategica del Mezzogiorno rispetto al Nord. In questo ragionamento sono evidenti le gravissime responsabilità del Sindacato, e della politica in generale, che hanno contribuito, negli ultimi decenni, con il loro agire morale, etico e politico, in termini di mancanza di rinnovamento, formazione e progettualità, all’impoverimento della vita sociale e culturale delle masse e del Paese, accelerando il processo di sfiducia, abbandono e degenerazione. C’è stata in questi anni l’incapacità del Sindacato, innanzi tutto, di dar vita ad un accurato studio sulla nuova organizzazione del lavoro, elemento necessario per capire ed intervenire nei processi di ristrutturazione. C’è stato l’avvio di un processo d’espropriazione della democrazia all’interno delle fabbriche che ha incrementato sempre di più il distacco dai lavoratori, con la conseguente fine della partecipazione, e quindi di confronto, provocando l’accelerazione del processo d’istituzionalizzazione del Sindacato, sempre più ente assistenziale, nella migliore delle ipotesi. Un Sindacato, questo, che non è stato capace, in questi anni, di apportare un reale rinnovamento, soprattutto culturale, al suo interno. In questo scenario continua l’azione padronale, insieme alle politiche del Governo delle Destre, all’ingerenza del Vaticano, e quindi dei poteri forti, d’eliminazione d’ogni elemento “disturbativo”, prima dal Parlamento italiano, poi da quello europeo, tutto ciò con l’”annessione” di quella parte di Sindacato che deve operare da “stampella”. Se a tutto questo sommiamo lo spaventoso ritardo di una Sinistra, che in questi anni è stata, soprattutto, funzionale al progetto di smantellamento di una cultura, quella Comunista, si intuisce bene quale sarà il futuro di tutti i lavoratori, non solo quelli Fiat, lasciati oggi allo sbaraglio, se non si interviene immediatamente per ridare fiducia ai lavoratori, ricreando le condizioni che la Cgil e le lotte Comuniste hanno contribuito storicamente a conquistare. Si deve ripartire con quella operazione politica di rinnovata e reale progettualità e prospettiva, di perseguibile alternativa al sistema, di ricostruzione della classe, con il ritorno determinante a quegli strumenti partecipativi e culturali, ad iniziare dai Partiti, per riprendere un percorso, che ancora ritarda, ma che è l’unica vera possibilità per ridare ai lavoratori e a tutti i soggetti sfruttati, la dignità e la consapevolezza di esserci per trasformare la società.

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