martedì 24 febbraio 2009

Lettera aperta alla maggioranza di Chianciano.

di Ramon Mantovani
Care compagne e cari compagni,
scusate se prendo la parola in questo modo ma l’urgenza dei problemi di cui intendo parlarvi e l’assenza, nei prossimi giorni, di riunioni nelle quali difendere le mie posizioni non mi lasciano altra scelta.
Come sapete da tempo sostengo che il principale problema che abbiamo non sia la scissione o le scelte connesse alle elezioni europee. Continuo a pensare che il progetto della rifondazione comunista sia in pericolo di vita soprattutto per due questioni che rimangono irrisolte, e sulle quali, anzi, vedo gravi arretramenti.
I problemi sono, e mi scuserete la sommarietà del ragionamento, le elezioni amministrative e più in generale le nostre esperienze di governo locali da un lato e lo stato del partito sui territori dall’altro.
Sono, come si vedrà, problemi intimamente collegati. Ma per comodità di esposizione li descriverò separatamente.
La sconfitta di Soru in Sardegna secondo me dovrebbe farci dire due cose: 1) il centrosinistra in tutte le sue varianti, autosufficienti o meno, è morto. 2) il sistema politico (quello elettorale, delle relazioni fra forze politiche fondate sulla logica bipolare) è irriformabile dall’interno.
In altre parole i problemi per la democrazia in Italia non vengono solo da Berlusconi e dalle tentazioni autoritarie, reazionarie e razziste della destra. Vengono anche, se non soprattutto, da un sistema politico che è intrinsecamente separato dalla società e votato ad escludere dalla rappresentanza il conflitto sociale. E’ evidente che si è creato un circolo vizioso per cui il frontismo, ed ogni possibile riedizione del centrosinistra, è destinato a rafforzare la destra e a produrre crisi drammatiche nello stesso PD che scopre, senza avere nessuna possibilità di uscita dalla logica che ne ha determinato la nascita, di essere la prima vittima della logica bipolare. Nel pieno di una crisi “costituente” e di lunga durata l’alternanza sembra destinata ormai ad essere solo una possibilità astratta. Con ogni probabilità qualsiasi nuovo gruppo dirigente del PD tutto farà tranne che abbandonare la prospettiva dell’alternanza, condannandosi così ad accentuare la propria subalternità alla destra e alla cultura dominante. Sia che scelga di competere con la destra sul suo stesso terreno sia che scelga una riedizione del frontismo privo di contenuti sociali realmente alternativi, che sono e rimangono incompatibili con l’alternanza.
E’ un quadro desolante e grave ma non credo proprio che si possa sfuggire alle implicazioni che comporta.
La prima delle quali è che non si può stare in mezzo al guado. Non si può, cioè, di fronte a tutto questo cavarsela con la proclamazione di una svolta a sinistra, con buone e magari buonissime dichiarazioni politiche, con qualche lodevole esperienza di ricostruzione sociale, ed essere contemporaneamente, in centinaia di comuni, province e regioni, parte integrante del centrosinistra e di un sistema politico (perfino nella collocazione di opposizione istituzionale) irriformabile, lo ripeto, dall’interno.
Ovviamente non propongo, lo dico a scanso di equivoci, un esodo dalle istituzioni e l’autonomia del sociale. Propongo solo di prendere atto di una realtà evidente e di abbandonare ogni illusione che si possa, dall’interno o dall’opposizione nelle istituzioni, ottenere una svolta a sinistra del centrosinistra. Propongo di rendere evidente il nostro antagonismo nei confronti del sistema politico esistente. Propongo di smetterla di pensare che nei governi locali si possa fare qualcosa capace di invertire la tendenza senza contenuti esplicitamente fuori dalle compatibilità del sistema stesso. Il partito sociale non può essere un dettaglio, una evocazione della natura di classe e popolare del partito o peggio ancora un espediente propagandistico. O è l’anima di un progetto politico che si propone la distruzione dell’attuale sistema politico o non serve a nulla.
Non si può all’infinito oscillare tra rotture ed accordi minimalisti con il centrosinistra senza produrre un’idea alternativa di politica rispetto a quella bipolare, compatibilista e congegnale ad un sistema capitalistico in profonda crisi. Senza questa politica “altra” la separatezza del sistema politico vigente dalla società è destinata ad aumentare e il progetto di rifondazione comunista ad essere dilaniato dai due poli del dilemma. Possiamo diventare un più grande Pdci o una più grande Sinistra critica, ma non essere ciò che vorremmo. Un partito comunista dotato di un progetto che per lo meno tenti di cambiare davvero la situazione e non solo di lucrare qualche rendita di posizione elettorale per giustificare l’esistenza di un ceto politico e la sua autoconservazione.
Se sostengo che su questo primo punto ci sono arretramenti, e da qui l’urgenza di questo mio porre il problema, è perché, per dirla senza giri di parole, il PRC continua ad essere in troppe giunte (basti pensare a quelle calabresi e campane) e ha già avviato trattative per la continuazione o inaugurazione di esperienze di governo su una linea minimalista e frontista che è la stessa degli ultimi anni. La svolta a sinistra nella maggioranza dei territori non c’è. C’è un continuismo che nella attuale situazione si configura come una vera e propria svolta destra.
Come se non bastasse, giusto per suggellare a livello simbolico questa svolta a destra, a Bologna si mette in minoranza il segretario della federazione in nome del dialogo col PD. Questo, oltre ad avere risvolti grotteschi, mi porta a parlare dello stato del partito e, segnatamente, dei suoi gruppi dirigenti.
Voglio subito chiarire che per quanto riguarda Bologna io non entro nel merito delle annose diatribe e divisioni che si sono prodotte nel gruppo dirigente di quella federazione. So solo che ho incontrato Loreti ed altri compagni in una dura battaglia, isolata e quasi solitaria, per l’uscita del partito dal governo Prodi e contro la Sinistra Arcobaleno. Così posso testimoniare quanti contrasti e pressioni il gruppo dirigente di Bologna abbia subito dall’allora segretaria nazionale per la scelta di contrapposizione frontale a Cofferati. Così so, da ambienti del PD visto che non sono privo di relazioni, quanto fosse atteso da mesi e dato per certo dal PD bolognese il cambio del segretario del PRC a Bologna.
Resta il fatto, indipendentemente da tutto ciò, che la rottura della maggioranza a Bologna si è consumata sulla relazione con il PD in vista delle elezioni. Mi limito a dire che non sono d’accordo per nulla e che considero questa scelta, anche per l’importanza di Bologna dal punto di vista politico e simbolico, gravissima.
Molto più grave, se possibile, è il fatto che le dinamiche fra le diverse mozioni e diverse correnti interne e trasversali alle mozioni, soprattutto dopo la scissione, rischiano di condizionare e ipotecare la capacità del partito di sviluppare l’iniziativa politica e di imbrigliare in logiche intestine lo stesso segretario del partito, che non lo merita, dato il suo stile antileaderista di direzione.
Sebbene io pensi sia più che legittimo che ogni corrente faccia le iniziative pubbliche che vuole, che le propagandi come meglio crede, che partecipi, insomma, al dibattito ed anche alle decisioni politiche seguendo i propri percorsi, credo che sia ora di mettere la parola fine alla balcanizzazione dei gruppi dirigenti a tutti i livelli. Per due motivi. Il primo, ma lo capisce anche un bambino, è che così facendo si selezionano quadri sulla base della fedeltà alla propria corrente o, peggio ancora, al proprio leader di corrente, dando vita ad una situazione insana per cui nei territori ci sono compagne e compagni di serie A che dispongono dei santi in paradiso che li difendono a prescindere dalle loro qualità e compagne e compagni di serie B che sono tagliati fuori dalla possibilità di essere valorizzati e che vengono così indotti nella difficile, e per molti inaccettabile, scelta di doversi cercare anch’essi un santo in paradiso o di subire una emarginazione intollerabile. Il secondo è che tutto questo produce e riproduce, nei fatti, le premesse di spaccature insanabili e verticali in tutto il partito ogniqualvolta si palesi una divergenza politica importante.
Onestamente non ho una soluzione da proporre per questo problema che non sia un atto volontaristico del gruppo dirigente nazionale. Atto che dovrebbe essere dettato non da considerazioni etiche e di stile, che pure dovrebbero valere, ma soprattutto dalla consapevolezza che la continuazione di questa situazione è ineluttabilmente destinata ad impoverire il partito, e cioè la casa comune di tutti. Sempre che il PRC lo si voglia far sopravvivere davvero e non portarne le spoglie all’altare di matrimoni interessanti per il ceto politico e non certo per il buon nome e il futuro del comunismo in Italia.
L’ultimo problema di cui voglio parlarvi, e che forse è il più grave di tutti, è il grado di degenerazione al quale è giunto il nostro partito in alcune regioni e, a macchia di leopardo, in diverse realtà territoriali.
In Calabria e, anche se non completamente, in Campania e Puglia, da anni ormai la nostra internità al sistema politico vigente di cui ho parlato più sopra ha trasformato il partito in un puro strumento di un ceto interno alle istituzioni. Organismi dirigenti composti pesantemente da persone direttamente o indirettamente dipendenti, dal punto di vista del reddito, dagli “istituzionali”. Decine di circoli con numeri spropositati di iscritti che si schierano come un sol uomo in occasione del congresso passando da una mozione all’altra sulla base della convenienza dell’istituzionale di turno, ma che spesso non svolgono alcuna attività politica fra un congresso e l’altro che non sia connessa alla visibilità e al prestigio dell’istituzionale di riferimento. Patti trasversali fra istituzionali interni ed esterni al partito e lotte fra diverse fazioni con l’unico scopo di assicurarsi il controllo degli organismi preposti a prendere le decisioni circa le alleanze elettorali e soprattutto a condurre le trattative per la spartizione di decine e decine di posti ben pagati nella pletora di enti di seconda nomina. Pratica diffusa di raccomandazioni di ogni genere allo scopo di costruire pacchetti di voti da usare alle elezioni, o addirittura allo scopo di far transitare persone, alla bisogna, dalla minoranza alla maggioranza nella direzione locale del partito. Per chi ha occhi per vedere tutto ciò è ormai visibile da anni. Negare o minimizzare è pura ipocrisia.
Non racconto queste cose per proporre la “questione morale”, anche se in qualche caso andrebbe fatto. Le racconto perché sono il frutto della nostra internità al sistema politico reale. Da dentro questo sistema, soprattutto in alcune regioni meridionali, non si può “fare politica” in altro modo senza sentirsi condannati alla pura testimonianza. Ma mentre per altri partiti, a cominciare dal PD, questo è coerente con l’obiettivo di governare l’esistente e di costruire la riproduzione di un ceto politico parassitario, per noi è mortale. I lavoratori, i cittadini, possono anche apprezzare, quando va bene, la “svolta a sinistra” e il partito sociale, ma vedendo ogni giorno questa pratica sul proprio territorio trarranno una sola conclusione: che siamo un partito uguale agli altri. Anzi, peggiore, visto che predichiamo il contrario di ciò che facciamo. Senza tralasciare il fatto che centinaia di compagne (soprattutto compagne!) e compagni disgustati da questo andazzo e che, nonostante tutto, non piegano la testa sentono sempre più inutile la milizia politica nel partito.
Penso che in alcune situazioni si debba azzerare tutto. Ricostruire tutto. Penso che si possa fare a partire dalla decisione che è intollerabile la nostra presenza in giunte come quella calabrese e quella campana e che si può tranquillamente scegliere se stare nel partito ed uscire dalle giunte e dal sistema di potere connesso o viceversa, ma non continuare a controllare il partito, ridotto così ad un feudo, per albergare in giunta ed essere parte integrante di un sistema di potere vergognoso. E penso che questa cosa vada fatta subito perché mentre il mondo del centrosinistra crolla ed il sistema dei partiti è inviso alla popolazione, anche a quella parte passivizzata al punto di non conoscere altra politica se non quella degenerata, almeno il gesto politico di rompere con tutto questo può impedire che finiamo sotto le macerie.
Ecco, care compagne e cari compagni, dette queste cose non so più se faccio parte della maggioranza che guida il partito. Spero mi conosciate abbastanza per sapere che confessare questo dubbio non ha alcun intento retorico o altro scopo che quello di esprimere lealmente una grave preoccupazione per le sorti di rifondazione comunista.
Grazie per l’attenzione.
Fonte: http://ramonmantovani.wordpress.com/

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