domenica 8 febbraio 2009

Il modello liberista degli accordi europei approfondisce gli squilibri sociali e quelli fra gli Stati dell’Unione Europea

di Tiziano Cavalieri

Se non si ferma la crescita della disoccupazione, non si eviterà il conflitto fra chi lavora e non si avrà la forza di contrastare le “riforme” tese ad annullare tutto quello (diritti sociali e politici) che era stato conquistato dalle classi lavoratrici fino agli anni ottanta del novecento. Uno dei centri di queste riforme è rappresentato dall’attacco ai contratti collettivi, il risultato sarà la scomparsa del sindacato come organizzazione legata e legittimata dall’insieme dei lavoratori. I lavoratori saranno una realtà frammentata fabbrica per fabbrica, posto di lavoro per posto di lavoro.
Questo disegno di subordinazione, se si aggraverà il ricatto della disoccupazione, potrebbe passare nel silenzio delle stesse classi lavoratrici. Dobbiamo spiegarci le ragioni per cui da noi spira questo vento reaganiano, mentre non spira in altri paesi europei dove, al contrario, si temono le conseguenze sociali della crisi. Credo che le ragioni stiano nella debolezza relativa del capitalismo italiano e nel fatto che, almeno in una prima fase, i singoli capitalismi cercheranno di far pagare l’uno all’altro la crisi stessa. Le classi proprietarie del nostro paese si stanno attrezzando per non pagarla, per non esserne travolte come classe, mettendo in conto che anche al loro interno ci sarà una “distruzione creativa”, come amano definirla.
La crisi si sta avvolgendo su sé stessa; determinata dalla creazione di capacità produttiva in eccesso rispetto alla domanda solvibile, si è dapprima manifestata nel settore delle banche (che avevano finanziato la crescita della capacità produttiva e sostenuto la domanda per consumi, trovandosi poi di fronte all’insolvenza di coloro ai quali avevano fatto prestiti); si è poi estesa al settore delle imprese manifatturiere, che si sono trovate di fronte alla contrazione della domanda. Come conseguenza nelle banche sono cresciuti i crediti in sofferenza. Ci si attende adesso la deflazione, ossia, con i mercati che si restringono, si avrà una caduta della massa salariale e dei prezzi. Questo mentre i debiti delle imprese e delle famiglie non si svaluteranno, per cui diminuirà la capacità di rimborsare i prestiti ottenuti e la crisi bancaria si avviterà.
La crisi si è estesa a tutti i paesi partendo dagli Stati Uniti per l’ovvia ragione che la crescita internazionale era trainata dalla spesa degli americani, una spesa possibile perché alimentata dal credito. Questa politica ha trovato un limite nel fatto che la domanda creata si rivolgeva all’estero e si traduceva in importazioni dagli altri paesi (avendo le grandi imprese americane investito all’estero per ottenere più alti profitti e disinvestito nell’industria interna). In altri termini l’espansione del credito non creava un reddito corrispondente negli Stati Uniti, un reddito che avrebbe permesso di ripagare i debiti. La finanza americana accresceva la propria capacità di fare prestiti collocando presso le banche del mondo una massa di titoli che erano garantiti dai prestiti che aveva concesso. Poi è accaduto che l’insolvenza di chi aveva preso a prestito ha investito prima le banche americane poi quelle del resto del mondo che avevano acquisito i titoli americani, per trascinare adesso nella crisi l’intero sistema finanziario internazionale.
Il progredire della crisi lo si può osservare dalle stime dei titoli cosiddetti tossici emessi dalle banche americane ed in giro per il mondo; il fondo monetario americano li stimava in 1400 miliardi di dollari nell’ottobre 2008, li stima oggi in 2.200 miliardi corrispondenti a circa il 15 per cento del prodotto interno (da parte loro le banche italiane in un anno hanno visto svalutare in borsa il loro capitale di circa 100 miliardi di euro). Occorrerà tornare su questi dati poiché Soros (Repubblica del 3 febbraio) ne ha forniti altri, riguardanti i crediti in sofferenza presso il sistema monetario americano, che gli fanno ritenere di essere in presenza di una crisi che potrebbe rivelarsi peggiore di quella del ’29.
A fronte di questa situazione gli Stati, non sono intervenuti sulle cause attraverso piani di investimento pubblici e attraverso una redistribuzione del reddito, stanno invece intervenendo caricando sui bilanci pubblici le perdite delle banche e dei grandi gruppi industriali (per il momento quelli del settore auto) . L’intervento pubblico potrebbe assumere la veste della nazionalizzazione, ma più probabilmente, per l’opposizione delle classi proprietarie, si darà vita ad una cosiddetta “bad bank”, trasferendo le perdite dai grandi azionisti bancari allo Stato. In questo caso, non c’è da dubitare che le autorità monetarie riterranno non solo sostenibile ma anche necessario l’indebitamento pubblico. Un indebitamento che, in questo caso, non avrà alcun effetto positivo sulla ripresa dell’economia, come tutto quello che accade sta a dimostrare (ricapitalizzare le banche o assorbirne le perdite nel bilancio pubblico non ha fatto ripartire il credito, che non riparte se non c’è domanda. Ricapitalizzarle, assumendone le partecipazioni, potrebbe essere utile per finanziare consistenti investimenti pubblici ).
Si può plausibilmente ritenere che il trasferimento delle perdite delle banche e dei grandi gruppi industriali al bilancio pubblico tenderà a coincidere con il valore della capacità produttiva in eccesso, un valore in crescita man mano che la crisi avanza. La distruzione della capacità produttiva, nel caso di una crisi prolungata e profonda, produrrà impoverimento e disoccupazione: la crisi distrugge risorse reali e posti di lavoro. Non è inevitabile che la crisi abbia questi sbocchi, ma manca una forza che si opponga. Per di più ci si muove in un contesto di economie capitalistiche che rendono altamente probabile uno sbocco distruttivo della crisi.
Gli interventi cosiddetti di salvataggio in atto, o predisposti, e che abbiamo appena richiamato, non avvengono in forma coordinata e solidale fra i diversi paesi, la solidarietà fra le diverse tribù del mondo capitalista è un’eccezione non la regola. All’inizio della crisi ci fu chi sostenne che era necessaria una nuova Bretton Woods dove i maggiori paesi avrebbero dovuto mettere in atto politiche monetarie e finanziarie, nonché politiche nazionali concordate, tese a far crescere l’economia internazionale in modo da risolvere gli squilibri esistenti: le economie in avanzo avrebbero dovuto espandere la domanda interna e finanziare le altre economie garantendo una soddisfacente stabilità dei cambi. Si esprimeva la consapevolezza che dalla crisi si esce senza distruggersi, se tutte le economie sono messe in grado di crescere. Il fatto è che l’accordo di Bretton Woods, che recepiva la versione americana e non quella prevista da Keynes, riconosceva la leadership al paese che era uscito dalla guerra come paese egemone. Il presupposto dell’accordo era questa posizione egemone. Gli Stati Uniti avrebbero svolto un ruolo di sostegno alla crescita internazionale fintanto che la loro egemonia non fosse stata messa in pericolo. Oggi gli Stati sono lontani dal perseguire una politica solidale, prevale una situazione di confronto fra le economie.
Un accordo diverso e solidale non esiste neppure per quanto riguarda i paesi dell’Unione Europea. In questo caso esiste solo una Unità Monetaria, mentre esiste una Banca Centrale molto particolare che non ha i compiti ed i poteri di finanziare e/o monetizzare il debito pubblico degli Stati ai quali è stata sottratta la sovranità monetaria , e non esiste un ministro del Tesoro europeo, come non esiste una Bilancia dei Pagamenti comune. La politica monetaria della Banca Centrale Europea ha avuto come obbiettivo la rivalutazione dell’euro, come si dice, una moneta forte. Si è scelto una politica di alti saggi di interesse e si è perseguito una politica di ortodossia finanziaria ossia di abbattimento dei disavanzi e del debito. La conseguenza è stata una politica deflazionistica e di contenimento dei salari. Questa politica ha avuto conseguenze diverse sui diversi paesi per la ragione che le diverse economie non erano ugualmente forti. Non solo ha consolidato le disuguaglianze e gli squilibri, ma li ha accentuati. La politica monetaria ed economica dell’Unione Europea ha in concreto rafforzato l’economia tedesca. Ci sembra condivisibile un articolo di Marcello De Cecco “la strategia imperiale della Germania industriale” (vedi Repubblica, affari e finanza del 19 gennaio) dove si può leggere che dall’inizio del secolo la Germania “ha triplicato il surplus della bilancia commerciale e approfitterà della crisi per consolidare il suo ruolo di grande hub produttivo”.
A sinistra si parla di superare il liberismo, ma non si ha nessuna idea di come modificare l’accordo europeo. Un accordo che è un modello di liberismo. Senza superarlo la disoccupazione sarà devastante in particolare per i paesi europei con una economia più debole, con conseguenze gravi sugli assetti democratici. Occorre fare un bilancio degli accordi europei per avanzare una proposta alternativa a quella liberista. Questa Europa non può essere un tabù.
Fonte: sinistracomunista.it

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