venerdì 23 gennaio 2009

Comunismo italiano, attualità e valori. Ma nel Prc minacce di scissione.

di Gianluigi Pegolo*


Il 21 gennaio del 1921 nasceva il PCdI, quello che sarebbe diventato poi il Partito Comunista Italiano. Una storia complessa, scandita dal passaggio difficilissimo della lotta clandestina contro il fascismo, dal ruolo decisivo assunto nella Resistenza, per giungere al governo unitario che diede vita alla Costituzione repubblicana, e in seguito - con l’avvio della guerra fredda - ad una collocazione di opposizione che, con l’intermezzo dell’esperienza del governo di unità nazionale, si protrasse fino alla fine degli anni ’90.
In circa settant’anni il PCI divenne uno dei protagonisti indiscussi della vita politica e sociale italiana ed internazionale; contribuì in modo determinante a produrre un assetto costituzionale innovativo e più avanzato degli altri paesi occidentali; costruì un insieme poderoso di organizzazioni che dalla cooperazione, alle attività culturali, alle associazioni di categoria innervò il tessuto sociale del paese; sostenne un’esperienza sindacale - come quella della CGIL - che tanto incise nella storia del mondo del lavoro; gestì una rete di governi locali che nei momenti migliori produssero esperienze di eccellenza. Una storia non priva di contraddizioni, se è vero che, per esempio, l’esperienza del governo di unità nazionale dovette essere rapidamente accantonata o se è altrettanto vero che non sempre quel partito seppe relazionarsi con i mutamenti sociali e con l’emergere di nuovi movimenti, pur dimostrando rispetto ad altri partiti comunisti una capacità di comprensione certamente superiore. Quella storia si concluse con un’abiura. La svolta di Occhetto dell’89, in nome dell’innovazione, in realtà ne rinnegò l’ispirazione e la originalità.
Quello che è avvenuto dopo è noto: il nuovo partito – il PDS – via via assunse posizioni sempre più moderate approdando infine nel PD e, per converso, si produsse una nuova soggettività comunista, il Partito della Rifondazione Comunista. In questo 88° anniversario della nascita del PCI, il tema dell’attualità e del valore del riferimento al comunismo si ripropone in modo più stringente che negli anni scorsi. Il PRC è, infatti, travagliato da una minaccia di scissione che significativamente muove, come nell’89, da una pulsione al “nuovismo” e al superamento dell’esperienza comunista italiana. Anche oggi, come allora, chi vuole andare “oltre” lo fa in nome di un disegno politicista e moderato, per il quale un progetto di trasformazione radicale – come quello evocato dal comunismo – viene considerato impedimento alla ricerca del consenso. Anche oggi, come nell’89, però, quel disegno di omologazione appare debole e contraddittorio. Chi lo persegue si cimenta, infatti, in un’impresa che non solo è priva di uno spazio politico vero, ma che si distacca dalla materialità della condizione sociale del paese. Ciò vale, a maggior ragione, nel momento in cui la drammaticità della crisi imporrebbe soluzioni radicali per arginare i disastrosi effetti sociali. Una sinistra generica, soggetto collaterale al PD, che assuma come riferimento ambiguo la socialdemocrazia europea, che cerchi nella collocazione di governo il principale mezzo per il proprio accreditamento, può davvero offrire una risposta? E’ assai improbabile. E’ dalle cose, quindi, che viene la conferma di uno spazio politico per una opzione comunista. Ma non solo.
La crisi di Rifondazione Comunista, con il disastro elettorale dell’Arcobaleno, precipita proprio nel momento in cui quel riferimento al comunismo viene meno. E’ il segno che quella comunità e quel consenso si reggevano in misura rilevante su una cultura politica e un senso dell’appartenenza sedimentati negli anni. Ma c’è di più. È l’intera sinistra italiana che arretra a partire dall’89 e ciò dimostra l’essenzialità che ha avuto nel nostro paese il riferimento al comunismo, o meglio al comunismo italiano, perché ben sappiamo che l’esperienza dei partiti comunisti è stata molto differenziata. Quello che ha fatto grande il PCI è stata la capacità di leggere la società italiana e, conseguentemente, di offrire risposte adeguate. Il più grande partito comunista dell’occidente non è diventato così grande in virtù di un accidente della storia, ma perché ha colto i tratti fondamentali del paese, ha saputo costruire un blocco sociale partendo dal riconoscimento della complessità della articolazione della società, ha saputo connettere lotta sociale a utilizzo delle istituzioni e ha saputo produrre cultura. Quella esperienza è segnata dalla storia, ma non può dirsi per questo superata. In realtà, molte delle sue ispirazioni di fondo trovano conferme anche oggi. Esse andrebbero rilette e aggiornate, anziché rimosse, in assenza di riferimenti altrettanto validi. Per questo restiamo comunisti. Non per nostalgia, ma per realismo.
Fonte: Dazebo


*Membro della Segreteria nazionale del Partito della Rifondazione Comunista

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